Il mercante di Renda stupisce ma non sconcerta

Quando Shakespeare scrive Il mercante di Venezia, il ghetto della città lagunare esiste da ottant’anni, e circa un secolo è trascorso da quando Isabella di Castiglia (l’anno stesso in cui, Cristoforo Colombo con la regale benedizione dei re cattolici, prende il largo alla scoperta delle Americhe) ha emanato, assieme al marito Ferdinando, l’editto che espelle dal regno tutti gli ebrei e i musulmani che non accettino la conversione. Ma fin dal XIII secolo, anche in Inghilterra era iniziata una persecuzione contro gli ebrei, e una serie di pregiudizi verso la stirpe di Abramo doveva essere ben radicata anche nel periodo elisabettiano. Per questo, appare quasi un corpo estraneo, nel Mercante, il lungo monologo di Shylock: “Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? […] Se ci pungete non diamo sangue, noi? […] Se ci avvelenate non moriamo?”. Un elemento ambiguo, spiazzante, nel ritratto dell’altrimenti ripugnante usuraio ebreo. Ma allora, qual è l’atteggiamento del Bardo nei confronti del diffuso antisemitismo del suo tempo?

Filippo Renda, regista giovane ma già determinato nelle sue scelte artistiche, con la sua proposta del Mercante, prodotto da Elsinor, sembra volere scansare questa ingombrante aporia, e offre, con coraggio, una lettura personale dell’opera.

“Non mi è mai interessato mettere in scena un testo già esistente,” confida, “ma utilizzarlo come pretesto per mettere in luce delle ossessioni del tutto private e personali. Non mi interessa scrivere un testo con un linguaggio contemporaneo, ma cerco di impossessarmi dell’autore e del suo stile mimetizzando i miei contenuti”.

Nella sua visione, quattrocento anni fa Venezia era ciò che oggi è New York: una città che era stata il centro culturale, politico e economico del mondo, e che adesso si trova in ristagno; dove però il denaro è rimasto la lingua comune, che governa e distorce tutti i rapporti, pubblici e privati; dove dilaga la corruzione. Coerente con questa lettura, Renda riscrive molte delle scene del Mercante, fino a modificarne il lieto fine. Nessun personaggio è esente da un giudizio morale negativo. Tutti hanno giocato sporco: persino Porzia, che pur proviene da quel luogo apparentemente incontaminato che è Belmonte, e che, dopo essersi prestata, travestita da leguleio, all’atroce beffa con cui si vendica della malvagità di Shylock, nel finale si dirà affascinata, attratta dalla decadenza veneziana.

A Graziano, il personaggio in cui Renda asserisce di riconoscersi di più, l’adattamento attribuisce quasi un ruolo di personaggio coro: il suo interprete, Simone Tangolo, accompagnandosi con la chitarra, a sipario chiuso ma già in costume di scena, canta, con un gioco di teatro nel teatro, una sorta di prologo, che è quasi un manifesto di poetica. L’autore è Franco Fanigliulo, un grande e dispettoso talento di trent’anni fa, prematuramente scomparso.ilmercantedivenezia_094

Una così radicale, ardita rivisitazione del testo shakespeariano poteva sortire risultati sconcertanti, ma così non è. Lo spettacolo cattura; la fabula si dispiega senza intoppi; gli attori, per lo più giovani (appartengono, quasi tutti, alla compagnia Idiot Savant), assecondano con passione l’impostazione drammaturgica e registica, restituiscono in modo plausibile e disinvolto i molti ruoli previsti dal testo (sono in tutto sette), indossando a vista le maschere e i costumi appesi alle pareti del palcoscenico disadorno. Sono tutti efficaci e in parte: da segnalare, oltre al già citato Simone Tangolo, allo scapicollato Bassanio di Mauro Lamantia, alla maliziosa Nerissa di Francesca Agostini, l’autorevole presenza scenica di Irene Serini, nel triplo ruolo di Lorenzo, di una Porzia fascinosa eppur virilmente determinata, e quindi anche del falso leguleio. Sobrie, ma efficaci le invenzioni scenografiche. A titolo di esempio: l’acqua della laguna, restituita figurativamente da una miriade di etichette di plastica di un’acqua minerale sponsor della produzione; l’ingegnoso minimalismo materico degli scrigni; l’ironia degli oggetti in essi contenuti (una biografia di Steve Jobs, una di Bill Gates, un ritratto di Botticelli). Soluzioni che, ancora una volta, dimostrano il valore, anche estetico, di un teatro povero.

Le musiche alternano il pop a quella che, a primo ascolto sembrerebbe una scontata citazione di Vivaldi ma che, invece – quasi contraltare della drammaturgia di Renda – è la rivoluzionaria, ma non infedele ricomposizione di Max Richter delle Quattro stagioni.

Shakespeare, si dice nell’ambiente, sopporta tutto, anche le manomissioni più impertinenti. Ma non è questo il caso. Dietro questa operazione c’è un pensiero non scontato e consapevole. Cito dalle note di regia: “Quando la generazione under thirty incontra Shakespeare si trova di fronte a un archetipo, a un genitore che bisogna essere disposti ad uccidere, a violentare, a tradire. Rischiando di rimanerne schiacciati, sconfitti. Ma non è questo il rischio che un under thirty deve essere disposto a correre?”.

Renda ha appunto ventisette anni, e il suo Mercante è uno spettacolo riuscito, che rivela un percorso serio di ricerca, non improvvisato né velleitario, i cui segni emergono visibili.

E allora, largo ai giovani!

Claudio Facchinelli

* * *

Il Mercante di Venezia

Produzione Elsinor – Centro di Produzione Teatrale

Di William Shakespeare

Adattamento e regia: Filippo Renda

Con: Sebastiano Bottari, Mauro Lamantia, Mattia Sartoni, Beppe Salmetti, Francesca Agostini, Irene Serini, Simone Tangolo

Scene e costumi: Eleonora Rossi

Assistente costumista: Alice Mancuso

Luci: Marco Giusti

Assistente alla regia: Valeria De Santis

Visto al Teatro Sala Fontana di Milano il 12 giugno 2016

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