Note in margine all’edizione scaligera della Chovanščina
Lasciando ad altri, più qualificati, il resoconto di un allestimento di indubbia qualità (dalla compagnia di canto, alla direzione di Valerij Gergev, alla regia di Mario Martone, alla scenografia di Margherita Palli), vorrei cogliere l’occasione offertami dall’allestimento scaligero di un capolavoro poco frequentato, e non solo in Italia, per spendere qualche parola sul suo geniale e infelice autore.Chovanščina è un’opera difficile, di ardua penetrazione fin dal suo titolo, che non si riferisce a una donna, come verrebbe da pensare, ma si potrebbe tradurre col neologismo “Una Chovanskata”, cioè un’iniziativa banale e senza senso dei principi Chovanskij.
Non provo neppure a sunteggiare il testo (mai i concetti di trama e di ordito ricorrerebbero più a proposito). La vicenda è ambientata in Russia sul finire di quel XVII secolo, caratterizzato da un groviglio di sovvertimenti, di travagli politici, militari e religiosi, che si comporranno (se così si può dire) solo con l’ascesa al trono dello zar Pietro il Grande. In questo contesto storico si intrecciano brame di potere, passioni d’amore, sia violente, sia sotto traccia, manifestazioni di un fanatismo religioso perseguito fino all’immolazione, e cinicamente strumentalizzato dal potere.
È quasi scontato rilevare la inquietante somiglianza di quelle vicende con quelle che oggi agitano e insanguinano il Medio Oriente. Ma è sul piano dell’invenzione drammaturgica e musicale di Musorgskij che vorrei focalizzare una prima osservazione.
Già col Boris Godunov questo genio disordinato aveva sconvolto lo schema narrativo dell’opera lirica, cioè quella cosa, per dirla con George Bernard Shaw, dove “un tenore e un soprano vogliono far l’amore, ma ne sono ostacolati da un baritono”. Il Boris è un “dramma musicale popolare” dove il protagonista è un basso, e metà dei comprimari hanno la medesima tessitura; dove l’eroe eponimo muore ben prima che l’opera si concluda; dove il finale, dopo un tripudio di cori e voci soliste che inneggiano all’usurpatore, si spegne, come in dissolvenza, con la straziante profezia dello Jurodivyj, il Puro Folle. E dietro le ardite invenzioni di Modest Petrovič, c’è la parola di poesia di Aleksandr Puškin.
Di Chovanščina, anch’essa definita “dramma musicale popolare”, è lo stesso Musorgskij a stendere il libretto, dopo essersi documentato per anni su quel tormentato periodo storico. Sul piano della drammaturgia musicale, il peso della vicenda si sposta ancor più radicalmente sulle masse corali, ed è singolare che la figura musicalmente più curata e significativa, Marfa, anche questa volta sia affidata a un timbro scuro: un contralto.
C’è una domanda che sorge spontanea di fronte a un lavoro come questo. Musorgskij discende da una famiglia di proprietari terrieri rovinati dall’abolizione della servitù della gleba; intraprende e subito abbandona la carriera militare; lascia un numero impressionante di lavori incompiuti; si rifugia nell’alcol per fronteggiare le frustrazioni e la depressione, fino a morirne, poco dopo i quarant’anni. Cosa lo spinge ad immergere le mani in uno dei periodi più foschi e torbidi della storia russa, e a restituirlo musicalmente con i suoi tipici colori scuri, con le asprezze timbriche e armoniche di un tessuto musicale e vocale che anticipa di decenni la poetica del primo Novecento? Cosa lo attrae, di quella dolorosa, funesta stagione?
A più riprese nella Chovanščina si leva il pianto sui destini della Madre Russia, della rodnaja matuška-Rus’. Non credo si tratti solo di cascami di quel romanticismo, connotato di nazionalismo, che aveva coinvolto anche l’arte e la cultura russa del tempo. Vi si coglie una partecipazione autentica e sincera, quasi una disperata, dolorosa ossessione, che non casualmente riecheggia il canto dello Jurodivyj nel finale del Boris, concepito qualche anno prima:
Sgorgate, sgorgate, lacrime amare!
Piangi, piangi, anima ortodossa!
Presto arriverà il nemico,
e scenderà l’oscurità,
un buio profondo e impenetrabile.
Dolore, dolore sulla Rus’.
Piangi popolo russo,
popolo affamato!
Non è certo, questa, una risposta che soddisfi la domanda che avevo posto; ma la pongo come una riflessione per cercare di comprendere meglio la natura e la personalità di un genio tormentato e infelice, dai più non ancora abbastanza conosciuto.
Claudio Facchinelli