Vaslav Nijinsky
e le esistenze ipotecate

Leggendo qualche rivista scientifica non è raro imbattersi in articoli che prospettino una situazione del tipo “cosa succederebbe se la Terra si trovasse ad orbitare tra pianeti del calibro di Giove e Saturno”.

La risposta, corroborata da più minuziosi dati scientifici sarebbe inesorabile: essa verrebbe fatta a pezzi a causa del fortissimo campo gravitazionale generato dai due giganti del sistema solare che letteralmente la stritolerebbero.

Fuori di metafora, cosa accadrebbe ad un essere umano, fosse anche il più geniale, dotato di qualità eccezionali e temperamento fuori del comune, quando questi venga a trovarsi in mezzo a sfere di influenza generati da altre persone che abbiano la pretesa di porre un’ipoteca sulla sua esistenza?

È, in definitiva, l’interrogativo che si è posto il noto ed apprezzato scrittore Antonio Mocciola che, unitamente al regista Diego Sommaripa, ha dato vita ad uno spettacolo incentrato su un artista che oggi potremmo paragonare ad un meraviglioso anello di Saturno: una creatura finita nelle ganasce di una potenza distruttrice e di cui oggi non è dato raccogliere che frammenti che orbitano attorno all’esistenza artistica della danza.

Vaslav Nijinsky non a torto è stato definito il più grande ballerino del ‘900, ma di lui la conoscenza non oltrepassa la superficiale soglia della danza specialistica e colta; a torto, perché egli è il reale padre della danza contemporanea, colui che ha dato corpo ai più reconditi anfratti dell’umana natura espressa mediante il linguaggio del corpo.

A voler leggere le cronache dell’epoca mirabili e scandalose furono le sue rappresentazioni della “Sagra della primavera” di Stravinsky, autentiche manifestazioni di riti ctonii, ancorchè incarnate da una sola persona che, da solo, valeva un intero stuolo di baccanti.

Ma nulla, o poco nello spettacolo ideato da Mocciola e sapientemente realizzato dal Sommaripa, faceva riferimento alla musica, alle scelte estetiche del ballerino, alla sua folgorante carriera fino al declino rapido e lo schianto nel sanatorio mentale (ove resterà fino alla sua morte).

La drammaturgia ha inteso cogliere un frammento dell’esistenza dell’artista Vaslav, dello sprovveduto ragazzo talentuoso ventottenne trovatori suo malgrado a fronteggiare due spiriti tanto distruttivi quanto maligni – perché materializzantisi sotto le spoglie dell’amore malato – la cui personificazione è quello di Sergeij Daighilev (Francesco Giannotti) e la contessa Romola de Pulzsky (Clara D’Afflitto Morlino) entrambi amati dall’artista.

Sia il primo che la seconda sono efficacemente descritte nello spettacolo come “stelle che non brillano”, il primo, ricco mecenate che promosse, finanziariamente, la carriera del ballerino, divenendone l’amante; la seconda, avida di essere ricordata come la “moglie” del genio, imperatore dei palcoscenici della danza. Entrambi vampiri avidi del misterioso dono che rendeva grande il giovane danzatore al punto da risucchiarne il midollo profondo della sua anima riducendolo ad una larva ischeletrita, vana ombra di se stesso .

Il Nijinsky rappresentato da Andrea Cancelliere figura il momento esatto in cui l’astro della danza si sgretola strangolato dalle forze lascive opposte che, sotto le mentite spoglie della protezione, di fatto ne hanno comportato la frammentazione dell’essere: non vi sono passi di danza, non vi è musica, se non in una lontana reminiscenza che quasi rammenta La Valse di Ravel; al contrario, movimenti sgraziati, incompleti, disarticolati accompagnano lo stallo di Vaslav in una perfetta interpretazione dell’attore caratterizzato da una fisicità minuta ma decisa e da tratti facciali macilenti e sguardi di ansimante sofferenza.

Parimenti il potente direttore dei Ballettes Russes, Sergej Daighilev, interpretato da Francesco Giannotti si presenta al pubblico in una iniziale prorompente nudità, forse la sola cosa autentica che egli sia stato capace di donare al geniale fragile artista.

Attore di esperienza, egli riesce ad essere soave come fazzoletto di seta che accarezza e feroce come lo scudiscio che frigge sulle carni lasciando cicatrici indelebili: un caleidoscopio che non poteva che essere affidato ad un artista che unisce teatralità a bell’aspetto. In altri termini la vera incarnazione della fraudolenza dantesca.

Del pari, Romola è scialba ed anodina, priva di efficacia ma non per questo non meno insidiosa perché destinata a rientrare nel nòvero delle creature consapevoli della mediocrità che promana dal proprio essere ed a cui reagiscono mediante l’attaccamento pervicace allo spirito dei grandi per poterne – in negativo – ricavarne una autodecifrazione della propria (altrimenti anonima) esistenza.

Indubbiamente Clara D’Afflitto coglie nel segno perché è parimenti complesso creare un personaggio teatrale che sia impegnato a tirar via da se pezzi di personalità allo scopo di modellarsi su quella del genio divenendone una sorta di copia carbone.

Intenso spaccato psicologico il lavoro di Mocciola e Sommaripa, nessun cedimento a visioni agiografiche o panegirici (di quelli son piene le biblioteche e le biografie), unica prospettiva quella incentrata su un giovane Ucraino, indubbiamente talentuoso, ma prima di tutto uomo meritevole di considerazione e rispetto da parte di chi, colla pretestuosità del cor gentil lo ha di fatto smembrato annientandolo nella sua fragilità

Pietro Puca

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