A seguire le produzioni del teatro contemporaneo, si direbbe che la grande stagione dell’impegno politico militante sia tramontata. La rivisitazione dei classici sopravvive, ma con scarsa convinzione. Anche il tema del recupero della memoria sembra aver esaurito la sua forza di attrazione. E allora – vien da chiedersi , quali sono i temi affrontati oggi dai giovani teatranti?
Mi riferisco a quella generazione che, nella prima adolescenza, ha assistito allo sfaldarsi delle ideologie, sepolte dai calcinacci del muro di Berlino, allo sfasciarsi dei partiti; che ha subito lo sbandamento etico ed estetico del ventennio berlusconiano, che non sa più in cosa credere, ma vorrebbe credere in qualcosa; che cerca dei padri e dei maestri, ma ha visto in tribuna troppi cialtroni camuffati da maître à penser.
Una risposta, ancorché parziale e interlocutoria, credo la si possa cogliere in una delle ultime produzioni della giovane compagnia Òyes, presentata per pochi giorni in anteprima a Milano: “Va tutto bene”.
Costituitasi cinque anni fa per iniziativa di una decina di ragazzi, tutti diplomati all’Accademia dei Filodrammatici, la compagna si era data quel nome un po’ misterioso: “In spagnolo, oyes è la seconda persona singolare del verbo ascoltare”, mi dice Fabio Zulli, uno dei fondatori. “L’ascolto dell’altro”, aggiunge, “è il presupposto necessario per dare senso al nostro lavoro su un palco”.
Alla base di quel lavoro, c’era già quindi un’istanza etica, fin dalle prime produzioni. Infatti, Effetto Lucifero è un’inquietante parabola sulla violenza e la prevaricazione insite nella natura dell’uomo, elaborata a partire da un esperimento condotto dall’università di Stanford, presso Palo Alto; Assenti per sempre affrontava con finezza psicologica il confronto fra un desaparecido e il so carnefice; in Luminescenz si delineava il tema di una deriva mistica, del bisogno di adesione a un guru, come risposta a un’eclissi di valori.
Va tutto bene, da un soggetto di Stefano Cordella, che cura anche la regia, si inoltra più in profondità sul terreno dello sbandamento generazionale. La storia si sviluppa in un ambito domestico, vicino alla cronaca quotidiana: un quadro di ordinaria follia familiare, alleggerita però da tocchi surreali, alla Zavattini.
Attilio, detto Attila (Fabio Zulli), è affetto da una madre television addicted, Annamaria (Alice Redini), e da un padre assente e sfigato, Ruggero (Dario Merlini). Costui muore poco dopo l’inizio della storia ma, con felice intuizione drammaturgica, la sua presenza, in forma di fegatoso, risentito fantasma, continuerà ad occupare in modo ingombrante un’estremità del proscenio, esilarante spalla e contraltare delle lamentazioni dei familiari in pellegrinaggio sulla sua tomba.
In tale contesto il timido, frustrato diciottenne Attila cerca un modello adulto di riferimento in Edo, un amico saccente e cialtrone, appena più anziano di lui (Umberto Terruso). L’educazione sentimentale di Attila troverà un esito inatteso nell’incontro con Lilly, un personaggio quasi onirico, ad un tempo entraîneuse ed angelo (la davvero liliale Vanessa Korn), che gli offrirà, con la grazia magica e delicata di una fata, la fresca nudità del suo seno.
La storia finisce in levare, senza catarsi consolatorie, ma come in dissolvenza, con un timido spiraglio di luce.
Gli attori sono tutti bravi e in parte (da segnalare l’accattivante porgere attorale di Merlini, che ricorda Eduardo, o Totò). Il testo, esito di una ben strutturata drammaturgia collettiva, è scritto bene; la regia gli imprime un ritmo incessante, senza smagliature. E si ride di gusto, pur con l’amara consapevolezza di assistere alla rappresentazione di una ineludibile realtà. Il linguaggio verbale è basso, credibile, e concede alla coprolalia – quasi un must espressivo nella drammaturgia contemporanea, un vezzo ormai stucchevole – solo quel tanto che è funzionale al personaggio, o alla situazione. In proposito, in uno dei momenti affettivamente più coinvolgenti dello spettacolo, proprio il timido, tenero Attila, ancora stordito dalla inattesa esperienza amorosa, contesterà i termini “puttana” e “troia” riferiti a Lilly da un invidioso Edo: “Non chiamarla così, lei non è una di quelle… lei è diversa…”.
Ma, al di là della qualità teatrale, lo spettacolo presenta un interesse sociologico non secondario: mette in luce, forse in una situazione estrema – ma neppure tanto – senza compiaciuti ammiccamenti, con onestà e con leggerezza di poesia, la situazione nella quale si trova oggi la generazione dei trentenni.
Non casualmente, anno più, anno meno, l’età dei giovani di Òyes .
Claudio Facchinelli