“Unicum”, sfalsamenti con dolore

 

Il testo di Tosi, Unicum, andato in scena al Centro Culturale Artemia (Roma, 28-30.4.2023) ha pregi e difetti, e oscilla tra dramma e commedia, secondo l’italica tradizione del dolceamaro. Mette in scena il rapporto complesso, di una vita, tra un omosessuale dichiarato, Giorgio, ed uno, Marco, che invece ha trovato rifugio nel matrimonio. Non è questo tuttavia il vero nucleo tematico, e la storia potrebbe essere tranquillamente quella di un uomo e di una donna. Marco fugge per timore della riprovazione sociale, per voglia di normalità? Forse anche. Ma prima di tutto fugge per paura dell’amore. Marco e Giorgio sono amici da una vita, ma il loro è il dramma di un incontro sfalsato. E’ una prima volta per tutti. Per i personaggi e per gli interpreti, due attori che da tempo non calcavano le scene, ed un regista alla sua prima prova. E se i personaggi alla fine falliscono parzialmente, gli interpreti, con alti e bassi, sotto una paziente regia, riescono alla fine ad approdare ad una tremebonda assunzione della fragilità, ad un dolore in stupita delicatezza. La storia è semplice. Forse troppo. Giorgio, omosessuale allegro da una vita, promiscuo, esibizionista, iperseduttivo, improvvisamente sente crescersi dentro vuoto e nonsenso. Non sa nemmeno – giustamente – se ha mai amato o lo è stato, e forse manco cosa l’amore sia. Probabilmente nella passione degli incontri ha usato il vitalismo frenetico come difesa nevrotica dal sentire, dal fare anima. Ma il suo discorso ora è vero amore ? Può sanare tutto cio ?

Certo che no. E’ un discorso di una ingenuità adolescenziale. Di un inconsapevole super egoistico narcisismo. Amare l’altro? No. Usarlo per esserci, per esorcizzare la solitudine.

Non ho detto che voglio fare sesso con te […] [la nostra] un’ amicizia ?

Lo è sempre stata. Lo è più che mai. Semplicemente è venuta l’ ora di

dire che io ti amo. […] Perché ne ho bisogno, un bisogno assoluto, vitale

di amare. […] e .. ho scelto di amare te. […] Penso a me, al mio unicum.

[…] io sono solo […] mi sento un disadattato […] un macigno di

infelicità addosso […] ho una paura fottuta che non ci sia nel mio futuro

un amore vero […] non posso vivere senza amare [ho] paura

che nessuno si accorga di questa ricchezza ho qui, dentro […] sono

diventato invisibile […] Non mi serve scopare. Mi serve avere qualcuno

a cui pensare, un pensiero che mi permetta di tirare giù le gambe dal

letto al mattino. Qualcuno che mi cerchi, che sia disponibile, una persona

di cui sentire la voce, con cui condividere una sensazione, un’amarezza,

una gioia”

Eppure, nella sua sincerità, è un discorso commovente: forse il suo modo di amare sta qui nel coraggio di mostrarsi. Nella condivisione della fragilità.

E si potrebbe accettare. Una base su cui costruire. Ma ..

Dicevo, per i personaggi, una prima volta. Un nascere all’amore come fragile e goffo fiore, per Giorgio, nel suo dichiararsi. Ed una prima volta per Marco, che nel ricevere la dichiarazione vede riaprirsi una ferita che pensava di avere medicato. A patto di non vivere. Perché, come vedremo, con un piccolo ma efficace colpo di scena (la svolta tragica) nessuno dei due ha avuto il coraggio di vivere. Giorgio non solo ha sempre fuggito la verità dell’amore, ma quando scopre che Marco lo amava ed è fuggito nel matrimonio per insicurezza, per paura del rifiuto, deve ammettere che lo aveva capito allora, senza però il coraggio di lasciarsi andare, di lasciarsi amare.

E questa è la vera solitudine: avere entrambi davanti a loro una solitudine non più mentibile, perché lo sfalsamento temporale rende il loro amore impossibile e irricevibile. Un po’ la tragedia dell’Enrico IV pirandelliano.

E’ troppo tardi, e non si può più rimuovere, ma solo vivere con la terribile verità.

E’ un buon nucleo testuale, che tuttavia, per ansia di alleggerire, l’autore intervalla con varie comiche in cui i due rinvangano condivisioni goliardiche. Ci sta, e il pubblico ride. Ma manca di ritmo, e risulta un po’ appiccicato alla filigrana tragica.

La regia di Petrosino è elementare, frontale, e gioca fondamentalmente sulla direzione degli attori, prigionieri di una scena minimale. Due sedie, un tavolino, e la ciotola di un ipotetico pasto. Infatti, per dire ciò che voleva all’amico, Giorgio si è inventato un falso invito a cena con tanti amici. Anche questo un punto debole del testo. Ed infatti all’inizio l’attore che fa Marco (Di Giacinto, più avanti invece il più convincente e dolente) fatica ad entrare nell’atmosfera. E’ declamatorio, e gira la testa a scatti, come un ventilatore, per cercare gli altri amici assenti.

A parte poi il solito gioco di alcune sottolineature atmosferiche a luci rosse o blu, un altro stratagemma, più riuscito, è l’uso del taccuino con cui Giorgio – passeggiando qua e là – rievoca il passato e sentimenti nascosti. Petrosino legge i pezzi – spesso poetici – con microfonato fuori scena, e certo con maggiore professionalità, e comunque introducendo un controcampo dolente, sognato. Giorgio (R.M.Vergano) è un po’ scolastico, prevalentemente mellifluo o predicatorio, raramente veramente dolente. Marco invece, superato l’inizio, entra in una gamma più vasta, passando dallo stupore all’irritazione, allo smarrimento basito, a momenti di condivisione suo malgrado, per culminare, alle spalle di Giorgio, in una silente delicata tentazione di cedimento e tenerezza. Un gesto appena accennato ed abortito di carezza. E’ la stupita delicatezza di cui parlavo all’inizio, e che lo stesso Petrosino dichiara come il tratto nuovo per lui in questa esperienza di regia.

Dopo la tenerezza abortita non ci può essere che dolore e divaricazione. Marco dichiara il segreto dell’amore che si era represso, e l’impossibilità dell’oggi. Qualche schermaglia. Poi un muto profondo lungo abbraccio. E Marco se ne va. Promette un risentirsi, ma poi al telefono chiude.

Ti prego, non cercarmi più”

E qui Petrosino ha avuto un colpo d’ala, con una bella idea visiva per chiudere. Giorgio prende da terra una vescica rossa – che dovrebbe contenere il cibo (uno stracotto) , ma che diventa metaforicamente il suo cuore – e la svuota nella ciotola a terra. Ne esce una nuvola, come quando si spargono le ceneri dell’urna del defunto. Il suo cuore incenerito ? Senza più il cibo dell’amore o della speranza ?

E cala il silenzio

Marco Buzzi Maresca

 

Scheda tecnica

Unicum

testo di Giorgio Tosi

regia, Bruno Petrosino

con Giancarlo Di Giacinto, Romano Maggiora Vergano

Share the Post:

Leggi anche