Le stagioni russe in Italia

Innovazioni e tecnologia video nella rivisitazione di cent’anni di letteratura russa

Negli ultimi tempi ho assistito, con qualche perplessità, al crescente, invasivo utilizzo di riprese video all’interno di spettacoli dal vivo: una scelta troppo spesso dettata da una moda, piuttosto che da autentiche esigenze espressive.

Ma la lezione fornita da alcuni lavori proposti nella breve, intensa rassegna Le stagioni russe in Italia, ospitata dal Piccolo Teatro d Milano, mi ha indotto a riconsiderare questa opinione.

Mi riferisco, in particolare, a I dodici (Dvenadcat’), per la regia di Anton Okonešnikov: una rivisitazione dell’omonimo poema di Aleksandr Blok, poeta simbolista forse meno noto in Italia rispetto agli artisti russi suoi coevi.

Già l’assetto scenico dello spettacolo è singolare, fin dalla disposizione del pubblico, seduto sedie disposte in cerchi concentrici, ma volgendo le spalle a una videocamera piazzata al centro, quasi un arcano oggetto totemico. Lo spazio centrale del Piccolo Teatro Studio Melato, qui a un tempo platea e sede dell’azione teatrale, è limitato da quattro grandi schermi. All’inizio i giovani attori (dodici come dichiara il titolo; dodici come gli apostoli) si presentano con i loro nomi, esponendo le loro aspirazioni. Sono in piedi, disposti negli spazi lasciati liberi fra gli schermi, a gruppi di tre; la videocamera li riprende, uno per volta, proiettando contemporaneamente le loro brevi interviste su ognuno dei quattro schermi.

Poi, dopo un breve buio, irrompe la suggestione visionaria dei versi di Blok: reiterati; alternati a scoppi violenti, a rumori urbani, a canti dal vivo a più voci di commovente qualità e bellezza. Sugli schermi, bagliori indistinti, primi piani del viso degli attori, deformati da spietate luci radenti, come in certe immagini del cinema espressionista; od ombre fugaci, sulle quali si stagliano le figure reali, in nero, in continuo movimento.

Non sembri incongruo il riferimento alla caverna del mito platonico: una realtà altra, che sconvolge le categorie spaziotemporali canoniche, e nella quale il pubblico si sente avvolto. Risuonano le note di una suite bachiana per violoncello solo, e l’immagine delle corde pizzicate dall’archetto vengono inquadrate e moltiplicate sui quattro schermi. E solo in seguito ci accorgiamo che anche quella musica è prodotta dal vivo, sul posto.

Di fronte a un progetto che in modo così insolito fa convivere felicemente lo strumento audiovisivo con i corpi e con la parola (ora in lingua originale, ora sovratitolata, ora tradotta in simultanea), le perplessità e le riserve della premessa vanno in frantumi.

Ed è singolare che tali arditezze espressive non nascano da una compagnia semi-clandestina: la una produzione e del Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, la più antica istituzione statale russa di arte drammatica, nel cui repertorio figurano tuttora le opere più importanti della letteratura classica.

Se di fronte ai versi – sconosciuti ai più – di Blok era facile farsi trascinare dal fascino inatteso di un linguaggio espressivo nuovo e composito, qualche sconcerto iniziale poteva invece nascere nello spettatore con Dall’altra parte del sipario. Il titolo rivelava un’idea drammaturgica che prevedeva il pubblico sul palcoscenico e l’azione teatrale in platea: soluzione che a Milano non era risultata praticabile. Il programma di sala informava che l’opera, pur in una trasposizione fantascientifica, utilizzava testi da Tre Sorelle di Anton Čechov. E allora, almeno nei primi venti minuti si affaccia spontanea alla mente la domanda: “Ma Čechov dov’è? E Stanislavskij, poverino, è morto?”. Poi, un poco alla volta, si entra nella logica provocatoria e dispettosa dell’ucraino Andrij Žoldak che, oltre alla regia, firma il testo e il disegno luci di uno spettacolo volutamente spiazzante.

Il pretesto drammaturgico – come da sottotitolo – è un’esperienza di reincarnazione in una stazione spaziale nel 4015, anno in cui – spiega Žoldak – dopo la sua morte, e dopo essere stato per lungo tempo una pietra in Mongolia vicino a un fiume, la sua anima si reincarnerà nuovamente in un essere umano. Qui, anche le tre sorelle čechoviane si reincarnano e, un poco alla volta, si riappropriano disordinatamente dei ricordi delle loro vite.

Fedele a questa premessa, lo spettacolo frantuma il testo čechoviano e ne ricompone i pezzi in ordine sparso: le battute vengono spostate, o scambiate; alcuni personaggi risultano mutilati (al fratello Andrej non toccano che poche battute); si palesa invece l’insopportabile, isterica moglie del colonnello Veršinin (che Čechov si limita a evocare attraverso le parole del marito). Le tre sorelle hanno un loro spazio, ma ciò che nel testo originale è raccontato (o, più spesso, alluso, lascito indovinare), qui è reso esplicito, come i volenti approcci di Solënyj verso Irina, o gli amplessi, ora appassionati, ora subiti, di Maša coi sui due uomini, Veršinin e Kulygin (ed è arduo stabilire quale dei due, in questa scompigliata versione, sia più scostante e ridicolo).

Gli attori sono tutti dotati di indubbia professionalità e talento; le luci sono raffinate; la struttura scenografica, che si modifica a vista, ha una sua innegabile suggestività; l’uso del video ci consente anche indiscreti sguardi all’interno di una casa; i paesaggi proiettati (foreste, e una ricorrente mareggiata), conferiscono un respiro più ampio e spettacolare alle azioni. Ci sono momenti, come la scena ove le tre sorelle si affacciano e rientrano ritmicamente dalla porta e dalle basse finestre della casa, in una sorta di surreale balletto, che hanno una forte intensità estetica. Il pubblico dei giovani sembra divertirsi (molti di loro non hanno mai avvicinato il testo

echoviano) e, malgrado la durata di quattro ore e venti, non si può dire che lo spettacolo annoi.

Tuttavia, a partire dall’ambientazione fantascientifica, quantomeno bizzarra, sfugge il senso complessivo dell’operazione. Uno spettacolo godibile, ma cosa aggiunge all’esplorazione della poetica, della weltanschauung čechoviana?

Le Stagioni russe comprendevano ancora Il vostro Gogol’. L’ultimo monologo, una sorta di apocrifo – più installazione che spettacolo – scritto e diretto da Valerij Fokin, e il pluripremiato Evgenij Onegin, da Puškin, ideato, riscritto e diretto da Rimas Tuminas, prodotto dal teatro Vachtangov di Mosca.

Fra le numerose iniziative parallele, di particolare interesse è stata la proiezione di un Boris Godunov, un film realizzato per la televisione da Anatolij Efros nel ’70 dalla tragedia di Aleksandr Puškin: un testo, a memoria d’uomo, escluso delle scene italiane, offuscato dall’omonima opera lirica di Musorgskij, ben diversamente nota e rappresentata.

Efros compie una scelta coraggiosa – e vincente – per tradurre nel linguaggio televisivo il testo puškiniano. Le scenografie sono minimali, più spesso disegnate; il suo interesse sembra rivolto all’esplorazione dei volti, inquadrati in primi e primissimi piani; al controcampo preferisce il movimento di macchina, e in tal modo risolve anche le scene di massa, fondamentali in Puškin ed esaltate da Musorgskij, in uno stile che fa pensare alla Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. Molti i tagli rispetto al testo originale, ma coerenti con le scelte drammaturgiche ed espressive. Una figura dallo sguardo intenso e pensoso in abiti moderni (una sorta di personaggio coro, di occhio e voce esterna) interferisce con gli attori in costumi storici. Unica concessione a Musorgskij, la citazione reiterata, in forma di nenia, dell’incipit della preghiera dello Jurodivyj, il Puro folle: una straziante, sconvolgente profezia sui destini della Russia; un colpo di teatro col quale l’alcolizzato Modest Petrovič aveva concluso genialmente l’opera.

Claudio Facchinelli

Le stagioni russe in Italia, Piccolo teatro di Milano – Teatro d’Europa

26 novembre – 2 dicembre 2018

I dodici, dal poema di Aleksandr Blok

Regia di Anton Okonešnikov. Produzione del Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo

Dall’altra parte del sipario, esperimento di reincarnazione in due parti, con l’utilizzo di testi da Tre Sorelle di Anton Čechov

Regia di Andrij Žoldak. Produzione del Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo

Boris Godunov, di Aleksandr Puškin.

Film. Regia di Anatolij Efros, 1970

 

* * *

 

Quasi esattamente coevo di Leopardi, partecipe degli stessi fermenti culturali che smuovevano l’Europa all’inizio del XIX secolo, gli è ad un tempo simile e lontanissimo. Inventa una lingua (il popolo era analfabeta, e l’aristocrazia parlava francese); inventa una drammaturgia. Scrive Il Boris a venticinque anni, in una sorta di isolamento coatto, nel villaggio di Michajlskoe, con la sola compagni della vecchia tata Alina Rodionovna (la sua “decrepita colomba”, come la chiamerà affettuosamente in una lirica a lei dedicata), che gli racconta le antiche fiabe russe. In seguito Puškin le metterà in versi, e a questo tesoro letterario attingeranno per almeno un secolo i musicisti russia. Ma in quel periodo ascolta anche la lingua del popolo, come la si sente al mercato, e ne coglie le suggestioni. Intitola la sua tragedia, “Commedia della vera calamita allo stato moscovita occrosa dello zar Boris e di Griška Otrep’ev”.

La vicenda, tratta dalla Storia dell’impero russo di Karamzin, sembra riecheggiare il Macbeth, ma Boris è un personaggio storico che, per spianarsi la via al trono, fa uccidere l’ultimo rampollo di Ivan il Terribile, Dmitrij. Va detto che questa versione è stata poi corretta da studi storici successivi, ma questa era la verità accreditata ai tempi di Puškin.

Il Boris Godunov è visionabile integralmente a questo LINK

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