“La battaglia di Legnano”
ed il Risorgimento Italiano in musica

 

Il conflitto tra oblio e memoria non riguarda solo periodo cruciali della storia d’italia come il risorgimento o la resistenza, ma anche, più modestamente, il destino di alcune opere di verdi visceralmente legate all’epoca storica che le ha generate.

L’oblio ha quasi vinto la sua battaglia sul terreno della Battaglia di Legnano: l’opera che rappresenta forse il massimo grado dell’autocoscienza risorgimentale di Verdi.

È dunque interessante e lodevole che il festival  del Maggio fiorentino abbia deciso di mettere in scena un lavoro che, pur conosciuto come un’opera d’occasione, presenta spunti interessanti e conquiste sul piano drammaturgico che pongono la Battaglia di Legnano come un gradino non eludibile nella carriera di Verdi, prodromico agli sviluppi posteriori del dramma politico nel genere del grànd opéra.

Non è un caso che Verdi scrivesse a Cammarano da Parigi discutendo con il librettista i dettagli della messa in scena di un’opera il cui empito patriottico trova delle strutture musicali adatte al livello dello scontro storico-politico quali l’anno di nascita (il 1848), epoca di rivoluzioni, cambiamenti politici, strategici e militari; l’ambientazione storica scelta dal musicista, il 1176: lotta dell’Italia contro l’invasione di Federico Barbarossa e, da ultimo, la vicenda che ruota intorno al patriottismo folle e sfrenato cieco e sfrontato di Arrigo, un eroe  che sceglie di colmare il proprio onore di soldato piuttosto che vivere la sua passione amorosa.

La sostanza musicale del dramma, tuttavia, ha i piedi solidamente conficcati nel suolo parigino, dopo che Verdi aveva consumato l’esperienza di Jerusalem, fortemente attratto dalla vita teatrale francese e dai suoi generi musicali: il grand opéra; l’opera lirique; l’opera comique ed è a questo orizzonte che è necessario volgere lo sguardo ove si voglia trar fuori dal limbo dei “pezzi d’occasione” la genesi di Battaglia.

È così che Verdi supera parzialmente il taglio dei numeri solistici e la struttura quadripartita  del melodramma; la perdita di simmetria e regolarità dell’articolazione vocale nelle grandi scene d’insieme; l’orchestrazione di gran lunga più ingegnosa delle esperienze passate.

Tiuttavia se, nonostante le sue premesse, la Battaglia non è davvero un grànd opéra  e suona infinitamente meno francese di altre opere di questo periodo (escluso il caso di Jerusalem) va analizzato nella circostanza per cui Verdi non ha ancora imparato (i tempi di Don Carlos sono lontani) a realizzare la sintesi perfetta che fa del grànd opéra il genere politico per eccellenza, ovverosia la saldatura tra il dramma storico ed il dramma individuale. Le vicende che legano Arrigo, Lida e Rolando rimangono imprigionate dentro il classico triangolo amoroso “soprano-tenore-baritono” e non acquistano quel respiro che consentono di agganciarsi al dramma storico dell’Italia dominata dallo straniero.

La responsabilità è in qualche modo anche di Cammarano che scrive per Verdi un buon libretto dove però i due piani rimangono rigorosamente separati, i numeri corali, ad esempio, del I del II e del IV atto sono dei veri e propri tableaux fixe che non riescono ad avere quel respiro che consenta ai personaggi individuali di rimanere entro la vicenda storica; sono un po’ dei tableaux un po’ rigidi e statici dentro i quali la vicenda non corre senza il dinamismo narrativo che hanno i grandi quadri di massa del vero ed autentico grànd opéra ed anzi la vicenda corre essenzialmente dentro le relazioni individuali, mentre i personaggi collettivi non hanno quell’autonomia sufficiente che potrebbe farne degli autentici protagonisti collettivi del dramma storico.

La messa in scienza fiorentina di questa edizione della Battaglia di Legnano ha sostanzialmente rispettato l’ampiezza di orizzonte che Verdi aveva concepito: ampia la scena ambientata al castello sforzesco in tutte le sue declinazioni: il cortile esterno, i grandi ambienti interni, le segrete, la sala del consiglio con fondali e quinte che sollevandosi e reclinandosi “alternavano nuovi spazi ai consueti”.

La regia affidata a marco Tullio Giordana si è rivelata felicemente filologica ed estremamente aderente al libretto, e di questo non possiamo che compiacerci data oramai la tendenza implacabile dei registi ad inutili ed incoerenti forzature, mossi più ad un’assurda esaltazione del proprio egocentrismo che a rivelare idee nuove recondite nel dramma. Bellissimi e finemente colorati i costumi di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico .

Punto di forza, ma parrebbe quasi inutile sottolinearlo, la direzione d’orchestra di Renato Palumbo:straordinario musicista che seguiamo sin dal Robert le Diable di Martina Franca nel 2000. La costruzione del suono sotto la sua bacchetta non è mai sbavato, mai inelegante, mai tronfio. I ritmi sono marziali ma non sguajati, l’ostinato dei grandi pezzi d’insieme si èrivelato un collante a partire dal quale si dipanano tutti i colori dell’orchestra senza che la forza del ritmo prenda mai il sopravvento.

Insomma Palumbo è riuscito, come nelle sue corde, a conferire una dignità sinfonica ad un’orchestrazione che da troppi, tanti superficiali viene tacciata di esaltazione dello zum-pa-pa.

All’altezza della situazione anche il cast: Vittoria Yeo (Lida) ha un timbro vocale cristallino, lirico, con acuti perfettamente centrati e non stimbrati, con lievissime difficoltà nel fraseggio e nella zona centrale del registro.

Giuseppe Gipali (Arrigo) è perfettamente a suo agio nella parte; splendidamente cantata l’aria “la pia materna mano”, ma il ruolo, dall’inizio alla fine dell’opera era ben gestito e mai si è avvertito segnale di stanchezza.

Giuseppe Altomare cantava nel ruolo di Rolando, marito di Lida; indubbiamente una voce molto potente ma dal timbro non molto suadente e poco morbido nel fraseggio

Incredibilmente bella, infine, la voce di basso di Marco Spotti, profonda e calda, protagonista unicamente del breve secondo atto è stata estremamente coinvolgente nella stretta finale “Il destin d’Italia son io”.

Consigliatissima, quindi, la visione delle repliche di questo lavoro sia per appassionati: perché è giusto concepire Verdi nella sua intera dimensione di musicista; sia per coloro che si avvicinano all’opera per assistere ad uno spettacolo travolgente e musicalmente godibilissimo.

Pietro Puca

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