Io ed Elena al Teatro Trastevere
Piani inclinati e deliri di solitudine

Ad esattamente un anno di distanza torna in scena, al Teatro Trastevere (Roma, 11-14.5.2023), Io ed Elena, di Donatella Busini. Trattandosi nel testo di due figure femminili, nella precedente versione (diretta e interpretata da Toscanelli e Petrosino), poteva esserci il dubbio di una deriva en travesti specialmente per il ruolo della madre. Non era però il caso, riuscendo entrambi gli interpreti a renderlo semplicemente un inferno d’anime.

Tuttavia è probabile che questa volta Toscanelli, solo alla regia, abbia avuto maggiore libertà di sguardo, e abbia potuto più agevolmente concentrarsi su una delle sue doti precipue, quella dell’architettura visiva e musicale, come strumenti per far campeggiare – come ama ripetere secondo lezione grotowskiana – la nudità attoriale, nel senso di nudità d’anima.

Un’altra novità poi, oltre al fatto di avere due interpreti realmente donne, è che la figura della madre è interpretata in scena, e con intensità non casuale, dall’autrice del testo.

Non potrei comunque dire tutte cose diverse, e quindi, prima di inoltrarmi sulle caratteristiche di questa messinscena, riporterò quanto detto, sul piano strutturale e narrativo, nella recensione allo spettacolo di allora.

(Fogli e parole d’arte, 31.5.22)

Io ed Elena’ è un testo ben costruito sugli specchi di una doppia patologia – madre e figlia – la figlia la paziente designata, come direbbero i sistemico-relazionali, e la madre forse la vera malata. Solo il finale risulta apparentemente forzato, riuscendo la figlia a far ricoverare con sé la madre nella stessa clinica da cui lei entra ed esce. Un assurdo in termini post basagliani. E tuttavia qualcosa che permette di avanzare altre ipotesi.

La storia è una semplice storia a tre. La madre, abbandonata dal suo primo amore, Robert, da cui ha una figlia, vive con questa, Elena, che entra ed esce dalla clinica psichiatrica. Il terzo personaggio, muto ma ben presente è l’amica immaginaria della figlia – Blanche – con cui Elena tesse il suo fitto sdoppiamento e dialogo ‘psicotico’. La madre ama la figlia ma la sente come un peso, addossandole la colpa della sua vita a smorire, da reclusa. Sta invecchiando, si sente sola, e si agita cercando uomini ormai in chat, andando incontro a ripetuti disastri. Bellezza decaduta, grande attrice fregata dalla maternità? Così sembra far intendere lei. Ma chissà se non solo sogno compensatorio, come quello di Elena/Blanche?

La figlia, da parte sua, alterna moine da eterna bambina non accettata a momenti di maternage e prediche verso la madre. Si sente rifiutata, inadeguata a questa madre mitizzata e depressa. Esplode in rabbie, poi la coccola, poi rifluisce in disperati mesti monologhi con ‘Blanche’. Ma sostanzialmente la vuole tutta per sé: alla madre non servono uomini per proteggerla; basta lei. E così sarà quando, dopo una serie di incontri e scontri la fa collassare in un pianto di dipendenza: ”Non essere dura con me!”

Ma sono veramente in tre? Chi è davvero Blanche? Certo è la protagonista di Un tram che si chiama desiderio (Tennessee Williams, 1947), o meglio, forse, per Elena, del film trattone da Kazan nel 1951. Almeno così sembrerebbe nell’idea di regia che ad un certo punto la incarna in una locandina d’epoca che ritrae Vivien Leigh.

Tuttavia, se la Blanche di Williams, come Elena, finirà internata, la radice delle sue crisi assomiglia piuttosto a quella della madre di Elena, Giovanna. Come lei Blanche ha perso il suo grande amore. Certo, in quel caso vedova, mentre qui abbandonata, anche se poi, quando recita per la figlia parla di una recente morte del suo amante, Robert, e inscena un dialogo con lui al funerale. Ma poi … E’ morto? O è un prendere coscienza che è morto per lei, e lei a lui e al mondo?

E allora, se Blanche è la madre, la Blanche che Elena come unica cosa riesce a possedere, non è questa Blanche la madre fantasticata come unica vera amica? E lo sdoppiamento uno sdoppiamento tra la madre/figlia malata ed una madre amica che capisce e accoglie?

A questo punto l’internamento della madre ad opera sua non è realismo, ma simbolicamente il disvelamento di come la madre sia la sua Blanche, di cui ora, nella verità psicotica, non ha più bisogno. Progresso? Regresso definitivo? Certo capovolgimento. Ora non è Blanche il suo pilastro, ma lei il pilastro della Blanche/madre, a cui delegare la malattia.

E alla fine i tre sono i tre volti di un unico dolente delirio.”

Certo, dicevo bene. Può essere interpretato tutto come un delirio di Elena, e la madre potrebbe essere solo una delle voci che sente in testa. Elena non sarebbe dunque mai veramente uscita dalla clinica, come potrebbero anche suggerire le severe geometrie di Toscanelli.

Questo tuttavia non invalida l’aspetto patetico realistico. Anche se la madre è soltanto una sua voce, la base sta in dei vissuti pregressi. Quella che è certa è l’assenza di guarigione, il collasso del loro incastro.

Susanna Quattrini, su Quarta Parete – in tal senso, per quel che riguarda il piano di realtà – oltre che sottolineare la simbiosi perversa, parla di una denuncia dei ruoli in cui il femminile sarebbe ingabbiato (si sa, siamo parlati dall’inconscio sociale): madre, moglie, amante, figlia. Parla di retaggio cattolico sessuofobico, ed esorta ad una femminilità nuova e coraggiosa, non dipendente né dal rapporto col maschio né dal ruolo materno.

Vero. Ma il problema è che Giovanna è crocefissa tra i due ruoli per necessità e, superando debolezza, insicurezza, bassa autostima, più che evaderli dovrebbe saperli contemperare. Solo così la figlia avrebbe potuto staccarsi, smettere di essere figlia, e quindi sua croce e prigione. Il problema quindi – a tutto campo, e ricevuto per trasmissione generazionale – è l’incapacità relazionale, e dunque di vero amore.

Del resto la Quattrini stessa alla fine lo dice: “Le madri certamente rivestono un ruolo centrale nell’educazione delle figlie e questo, se mal incanalato, cagiona danni irreversibili.”

Dunque, sì, il centro rimane la prigionia inevadibile della situazione.

E veniamo alla regia e agli interpreti.

Interessante è vedere innanzi tutto quale sia stata la scelta di Toscanelli, come dicevamo ora libero sulla sola regia. Partirei da una frase accusatoria rivolta dalla figlia alla madre, dopo un minacciato suicidio vittimistico e ricattatorio

Chi non ha mai sofferto è vuoto, come dice Blanche”

Il vuoto. Questa mi pare la rigorosa cifra esaltata dal regista, rispetto al pieno trasudante e travolgente del precedente spettacolo, di cui pure mantiene alcuni elementi (lo specchio a sinistra, il letto psichiatrico a destra, e al centro il tavolo con i segni del sogno: le teste di manichino e il ritratto di V.Leigh).

Il vuoto ? La madre vuota e la figlia svuotata. Il vuoto della prigionia. Il deserto psichico. Il bianco come desertificazione del colore inteso come vita.

E poi certo il bianco come purezza e castità. Già allora sottolineavo il gioco di parole tra Blanche e bianco. Si oscilla, tra tre armoniche, come tre sono i punti scenici: il sacro, il tragico, la menzogna come sogno e follia. Il vuoto ? Anche per dare campo alla centralità attoriale. Il vuoto come geometria e astrazione. Parallelepipedi da architettura utopistica fine settecento. E con colori puri. La tavola di fondo, da ultima cena, sembra lievitare nel nulla su un grande prisma blu (il colore freddo del destino e dell’indifferenza), a cui risponde un prisma giallo a piano inclinato, letto di sofferenza: e tra i due colori si muovono il bianco, il rosso, il nero. Sovviene la nudità grafico tragica di La morte di Marat ( David, 1793 ), a cui risponde, nella mise tutta in bianco della figlia, La dama con l’orecchino di perla (Vermeer). Ed il disequilibrio dei piani inclinati mette vibrazioni di inquietudine psichica nell’indifferenza geometrica, nella apparente armonia, e ricorda la marcia della morte (su piano inclinato) del Settimo sigillo di Bergman, o l’uso dei piani inclinati in Orson Welles (Il processo, Otello).

Infine, per continuare con i riferimenti al neoclassico, come non ricordare, per il prisma blu, la nuda piramide del Monumento Funebre a Maria Cristina d’Austria (Canova, Vienna, 1805). In tutto questo i due interpreti si muovono bene, anche se con alti ne bassi. Ornella Lorenzano (Elena) è forse un po’ troppo enfatica, e sempre sulla voce bambina, ma sa mettere dolenzia nelle posture, tra tenerezze solitarie, sbigottimenti, accasciamenti, torsioni nel sonno. Donatella Busini, forse un po’ meccanica nei toni della relazione, tra insofferenze e guizzi di commozione, mantiene comunque sempre un tono alto, e esplode invece alla grande, di corpo e voce all’acme della crisi, quando – tra ubriachezza, volgarità delusione, ripiegamento nella protezione filiale – crolla tutta la costruzione difensiva della sua vita. E belli i momenti di episodico avvicinamento tra madre e figlia: un abbraccio muto – dopo la musica ossessiva di Life and death; la danza a due sulle note xilofonate e frenetiche di Prayer N3 (Yan Tiersen); la discesa finale delle scalette d’avanscena, verso il letto psichiatrico, fragili, lente, vetrificate.

Il tutto sempre accompagnato da sapienti scelte musicali.

Un oratorio sacro con dissonanze, su un testo intelligente.

Marco Buzzi Maresca

 

Scheda tecnica

“Io ed Elena”

di Donatella Busini

regia di Mauro Toscanelli

Aiuto Regía Francesco Maggi.

con Donatella Busini e Ornella Lorenzano

Drammaturgia Musicale Mauro Toscanelli

Luci Francesco Barbera

Scene Mauro Toscanelli

Costumi Emanuele Zito e Claudio Giovannelli

Teatro Trastevere, 11-14 maggio 2023

Share the Post:

Leggi anche