Cominciamo con Emilio Russo, direttore del Teatro Menotti di Milano, una serie di incontri con i direttori artistici ed i produttori teatrali italiani.
Una vita letteralmente vissuta nel e per il teatro: produttore, direttore artistico di teatri e festival, ed anche una recente attività di autore e regista, fanno di Emilio Russo una delle figura più ricche di cultura e competenza teatrale, tra i protagonisti della storia del teatro italiano degli ultimi 20 anni, con un’attività che passa attraverso incontri di grande prestigio. In questi giorni ha appena concluso la sua quinta edizione da direttore del festival Asti Teatro, la cui programmazione è stata da lui in questi anni totalmente modificata, ed ha presentato alla stampa la nuova stagione del Teatro Menotti di Milano (Tieffe teatro), del quale è a capo da un paio di stagioni, dopo le esperienze con la Compagnia della Rocca e la direzione del Teatro dei Filodrammatici, sempre nel capoluogo meneghino. In quest’intervista abbiamo voluto con lui ripercorrere la storia dei suoi incontri ma anche fare il punto della situazione teatrale attuale, attraverso spunti e riflessioni che escono dalla sua esperienza sul campo.
La sua storia teatrale è ricca di grandi incontri, tra questi sicuramente il rapporto d’amicizia con Harold Pinter. Come nacque quest’amicizia e quali sono i ricordi più belli che la riguardano?
La mia amicizia con Pinter è nata in maniera quasi casuale. Nel 1996 all’ Ambassador Theatre di Londra vidi “Ashes to Ashes” (“Ceneri alle ceneri”), di cui egli stesso era regista. Lo spettacolo, nonostante la brevità (appena 35 minuti) mi piacque, si avvaleva di un allestimento semplice, quindi conobbi la sua traduttrice Alessandra Serra, ed espressi il desiderio di voler proporre in Italia quello spettacolo con la stessa regia dell’autore, quindi riuscii ad incontrarlo, a Londra, e glielo chiesi con la timidezza con cui ci si rivolge ad un classico vivente come lui, e lui, mi rispose con un semplice “Why not?”, e così lo portammo in Italia con due bravissimi attori quali Adriana Asti e dall’attore polacco Jerzy Stuhr. Ne venne fuori uno spettacolo di grande livello, provato per 15 giorni a Londra e 15 a Palermo. Certo, io allora ero un produttore piccolissimo, ma forse fu proprio per questo che Pinter aveva accettato, naturalmente nacquero delle illazioni, si sa, in Italia si fa sempre della dietrologia e si cercò di scoprire, dietro a questa disponibilità di un grande autore come Pinter, cosa ci fosse, e mai, nemmeno dopo la conferenza stampa dello spettacolo, è apparso sui giornali nessun accenno al piccolo merito del sottoscritto d’aver portato in Italia una regia del grande Harold Pinter
Lei è stato sempre vicino ai grandi innovatori del teatro, da Carlo Cecchi a Roberto De Simone, e, fra tutti, resta memorabile la sua collaborazione col mai abbastanza compianto Leo De Berardinis.
Con Leo De Berardinis ho cominciato a collaborare, sostenendolo alla nascita della sua compagnia “Il teatro di Leo”, erano gli anni in cui egli approdò al Festival di Spoleto con l’omaggio ad Eduardo, “Adda passà a nuttata”, quindi con il suo “Amleto, principe di Danimarca”, in un certo senso riuscii a sdoganarlo dagli spazi minori e riuscii a portarlo nei cosiddetti teatri ufficiali, che fino ad allora non erano luoghi avvezzi alla grande forza innovativa di Leo.
Quali e quante sono, secondo lei, le possibilità che possa ritornare una sorta di rinascimento culturale per l’arte scenica italiana?
Nonostante di solito le previsioni non siano mai ottimistiche, in realtà devo dire che la mia esperienza quinquennale di direttore del festival di Asti Teatro mi ha portato a mettere in evidenza l’impulso creativo di molti giovani, soprattutto drammaturghi. Io ho virato la programmazione del festival verso una produzione giovanile, ideando il concorso Scintille in cui gruppi di giovani propongono corti teatrali della brevissima durata di venti minuti a cui assiste una giuria composta da organizzatori teatrali che aiutano poi i vincitori nella produzione degli spettacoli. Quindi è chiaro che per me ci sia fermento. Oggi molti giovani, come dicevo, scrivono testi, dedicandosi alla drammaturgia, siamo piuttosto noi delle generazioni più mature i colpevoli del loro mancato riconoscimento. Quando eravamo giovani noi abbiamo lottato e conquistato spazi che ora però teniamo chiusi nei confronti dei nuovi giovani. Noi, è vero, avevamo più coraggio, ma forse la situazione contingente impaurisce e debilita l’attività dei giovani talenti. Bisogna dire che soldi, in realtà, nel teatro non ce ne sono mai stati, ma mentre prima avevamo vicine le istituzioni, che ci sostenevano, ora le stesse istituzioni sono lontane dal teatro, c’è solo un continuo parlarsi addosso e molto poco ascolto nei confronti di progetti ed idee. Il rinascimento deve essere dall’Ente Pubblico: non si può demandare alle fondazioni bancarie il sostegno alle produzioni, 30 anni fa ci confrontavamo con progetti politici oggi invece gli interlocutori sono le banche. Grazie alle analisi di trasparenza scopri che i comuni hanno investito un terzo rispetto al passato nella cultura e nel teatro, è vero, ma che poi i dirigenti pubblici prendono sempre tanti soldi: se lo stato ha scelto di non investire in cultura, ebbene che lo faccia fino in fondo decurtando gli stipendi di funzionari e dirigenti.
L’attività di direttore di un grande teatro quale il Teatro Menotti, a cui è approdato dopo la lunga esperienza al Teatro dei Filodrammatici, sempre a Milano, la stimola più o meno dell’attività di produttore?
Non vi trovo grandi differenze: considero il mio un lavoro creativo, e così anche il mio lavoro di regista, intrapreso da una decina di anni, lo ritengo un’estensione dell’attività di produttore e direttore artistico. Io, come produttore, direttore ed anche regista/drammaturgo accontento il mio gusto, certo, ma anche, e forse soprattutto, la mia curiosità. Nella mia direzione di Asti Teatro sono arrivato ad inserire ben 200 appuntamenti, sui quali, naturalmente, ho scommesso senza appagare il mio personalismo, insomma, mi comporto come uno spettatore che compra un biglietto. Di questi tempi il gestire un teatro da 500 posti come il Menotti sembra essere una condanna anziché un grande vantaggio. Milano è, per fortuna, rispetto ad altre città italiane, una città in cui c’è un pubblico molto attivo, ma comunque la situazione non è viva come nelle grandi capitali del teatro, dove le sale sono sempre pienissime.
Quali sono gli artisti che le interessano, nel panorama attuale del teatro italiano?
Sono sempre stato affascinato dagli artisti che si esprimono a tutto tondo, che uniscono musica a parola, drammaturgia, follia. Ad esempio l’Orchestra di Piazza Vittorio, grande fenomeno musicale e teatrale, Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, la cui grande attività nelle carceri, da oltre vent’anni, concilia arte ed impegno civile. Tra i registi di recente ho cominciato a produrre due spettacoli firmati da Arturo Cirillo (“Zoo di vetro” e, per la prossima stagione, “Chi ha paura di Virginia Woolf”, entrambi con protagonisti lo stesso regista e l’attrice Milvia Marigliano ndr) che stimo moltissimo per la sua visionarietà, mentre tra i giovani ho apprezzato la compagnia siciliana Vucciria Teatro (Joele Anastasi, Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano ndr) che hanno portato ad Asti uno spettacolo interessantissimo, ben scritto ed interpretato, “Io mai niente con nessuno avevo fatto”. Sono ancora molto interessato, inoltre, dal teatro di Moni Ovadia, un artista di grande impegno civile e di grande forza, di cui ho curato il suo omaggio ad Enzo Jannacci, un personaggio con cui ho avuto il piacere di lavorare, al Teatro dei Filodrammatici, forse l’incontro più importante della mia vita. Quando abbiamo scoperto che un artista legato a Milano come lui non era mai stato al Piccolo, abbiamo subito lavorato per far si che si organizzasse una settimana di repliche del suo spettacolo lì.
Qual è lo spettacolo da lei prodotto a cui è maggiormente legato?
Ce ne sono tanti, ma mi fa piacere parlare di un progetto che ho ralizzato la stagione scorsa, uno spettacolo che ho scritto diretto e prodotto con una compagnia formata da non-attori over 65: è stata per me un’esperienza incredibile. Si tratta di un adattamento del romanzo del 2005 “Il tramonto sulla pianura” di Guido Conte. Nel romanzo si racconta della storia degli ospiti di una casa di riposo nella Pianura Padana nel 1989, alla vigilia della fine della guerra fredda e del crollo del muro di Berlino. Per questo spettacolo ci tenevo che in scena ci fossero attori non professionisti, che trasmettessero un senso di verità, quindi abbiamo selezionato tra 90 persone al di sopra dei 65 anni, e, attraverso un laboratorio tenuto da Caterina Spadaro, ne abbiamo scelti 16. Il loro impegno e tutto quello che sono riusciti a dare a questo spettacolo mi ha davvero commosso: esiste una generazione di cosiddetti anziani che hanno fatto il 68 che ci hanno regalato il bene preziosissimo del tempo, insomma a partire da Leo fino ad arrivare a loro, a me continua a battere sbattere il cuore.
Cosa la incuriosisce nel futuro?
Sono curioso da tutto quello che mi aspetta nel futuro della mia attività. M’incuriosisce il prossimo incontro tra Giorgio Barberio Corsetti e Claudio Santamaria, rispettivamente regista e protagonista di “Gospodin” di Philipp Löhle, o il lavoro della compagnia El Grito di Roma, nata dall’ incontro tra l’uruguaiana Fabiana Ruiz Diaz e l’italiano Giacomo Costantini che hanno deciso di vivere e lavorare in uno Chapiteau, una sorta di tendone da circo, e con quello girano il mondo presentando i loro spettacoli. È forse quella la vera strada del futuro del teatro: inventarsi quello che non c’è, spazi alternativi, modi di comunicare diversi, come avviene per il nuovo giornalismo e la nuova critica teatrale che, esautorato dalle striminzite pagine della carta stampata, oggi si esprime attraverso il web. Insomma, come avveniva negli anno ‘60/’70/’80, quelli in cui nelle cantine nasceva la nuova linfa per il teatro, adesso i giovani è bene che sperimentino luoghi e mezzi alternativi a quelli istituzionali.
11 luglio 2014
Gianmarco Cesario