“Edith Piaf, tra storia e mito” di Monica Menchi celebra il centenario della nascita della voce più famosa di Francia

La chanteuse réaliste della ‘rive gauche’, dalle mille sfumature, ricalca le scene al Teatro Le Laudi di Firenze e ancora una volta la vita volge al Rosa.

Una storia intensa ed avventurosa quella dell’artista francese Edith Gassion, venuta al mondo nei sobborghi parigini al numero 72 di Rue de Belleville, fin dagli strazianti sforzi della madre che la partorì per strada davanti agli scalini della loro abitazione, aiutata da un flic in divisa che passava di lì. Il nome Edith lo ereditò da un’infermiera inglese, fucilata con l’unica colpa di aver aiutato dei soldati francesi a darsela a gambe dalla prigionia tedesca. Un lascito importante, dunque, che la fece scontrare ben presto con le insidie e le complessità della vita a cui seppe rivolgersi con spiccata caparbietà, ironia ed entusiasmo; un’assidua ricerca di nuovi orizzonti da scoprire nelle tante vie percorse, con la volontà perenne di conoscere e fare esperienza, una bramosia esistenziale che non riusciva a placarsi ma preferiva di gran lunga burlarsi dei passati rimpianti. A cent’anni dalla sua nascita è così che la vuole ricordare l’attrice e regista Monica Menchi, che con il suo spettacolo “Edith Piaf – Tra storia e mito” ne ripercorre gioie e dolori, in un monologo intenso ed armonico, sillabato ed accompagnato dai suoi testi più spirituali.

Un lavoro pulito, ben scritto e diretto nelle sue nuances più intime quello della Menchi, che non tarda a dar voce alle vicende più belle legate alla figura della Piaf, una donna davvero singolare che ha sempre preservato la sua nota attitude de femme amoureuse. Nata, cresciuta e morta come “un passerotto senza piume”, capì subito che l’amore e l’affetto sono spesso ‹‹merce a pagamento››, qualcosa che ti devi guadagnare a caro prezzo e che difficilmente ricevi come un omaggio. Fin dalle origini la sua infanzia è segnata da poca spensieratezza, la miseria di due genitori artisti di strada e dei loro ripetuti abbandoni le fanno perdere in fretta il sostegno e la protezione che ogni bambino prova a meritarsi. Impara a cavarsela da sola, a trovare presenze alternative alle carenze familiari, svincolandosi per la strada, la sua leale compagna di svaghi, forse sporca e aspra ma molto più accogliente e presente, che diventa la sua prima fan, il suo palcoscenico d’esordio. Qui riesce a sentirsi finalmente amata e desiderata, la sua timbrica graffiante diventa portavoce delle perdite subite, ‹‹lei cantava e tutti smettevano di parlare››. Un’ugola insanguinata ‹‹ruvida come carta vetrata in un corpo stretto››, esposto troppo presto alla solitudine di abbracci sospesi, che inesorabilmente rapisce i passanti lasciandoli increduli davanti a tanto virtuosismo canoro. Ecco che le sue canzoni diventano tutto per lei, il suo ‹‹debito con la vita, la sua carne e la sua anima che si liberano, almeno fino a quando non si riaprono gli occhi e l’illusione svanisce››.

Un grido duro e alto il suo, riproposto fedelmente nella rivisitazione della Menchi, che ha restituito un ritratto devoto alla tormentata eroina, alternando arie recitate a variazioni musicali inserite a pennello nel suo drammatico assolo, che proclama impellente come la musica, l’arte e l’amore abbiano guarito Edith, donandole nuova linfa e speranza. Un exploit mistico ben interpretato e piacevolmente amplificato dagli arrangiamenti originali di Daniele Biagini al pianoforte, seguito da Iuri Ricci alla fisarmonica. Una voce sinuosa dalle tinte jazz ha affiancato la drammaturgia della Menchi, quella di Antonella Grumelli, un’intrinseca liaison pienamente riuscita dove la regista, in primis, mette a nudo il suo carattere meditativo ed emotivo, condividendo il lavorio dei suoi pensieri con il pubblico in sala, che diventa così un osservatore attivo dell’interazione simbiotica in atto. Uno spettacolo ricercato che sinceramente rivela la vita sofferta dell’artista parigina, il dolore sordo che si portava dentro, la maschera che indossava con innato lirismo per celare il suo irrequieto spirito che l’ha scortata fino alla fine. L’undici ottobre del 1963 il sipario si chiude per l’ultima volta e dopo tanto patire a causa della sua terminale malattia, tristezza e pensieri vengono messi da parte, perché ‹‹la morte va guadagnata››, uno sforzo necessario tanto quanto il provare ad avvicinarsi al mondo di questa straordinaria donna, al suo umile universo, fatto di pianeti teneri, acidi e sconsolati, alla sua gracile e unica umanità che ancora ci insegna a tenerci a galla, impossessandoci con tutta la forza che ci resta alla sete di vivere, alla sana ostinazione di non fermarci lungo il cammino, perché tutto può ribaltarsi e migliorare, ‹‹l’amore parte in viaggio, insieme a noi››.

Firenze – TEATRO LE LAUDI, 25 gennaio 2015

 Mara Marchi

“EDITH PIAF” TRA STORIA E MITORegia: Monica Menchi; Produzione: Progetto Teatro; Drammaturgia: Monica Menchi; Arrangiamenti: Daniele Biagini; Canto: Antonella Grumelli; Pianoforte: Daniele Biagini; Fisarmonica: Iuri Ricci; Interpreti: Monica Menchi.

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