“Tristan”, ottimo esordio per la lirica al Regio di Torino

Non poteva esordire sotto i migliori auspici la stagione lirica 2017/2018 del Regio di Torino con l’attesissimo Tristan il cui allestimento proviene dall’Openhaus .

Tre i punti di forza di questa produzione: la direzione d’orchestra, la compagnia di canto e la regia.

Quanto alla prima, il maestro Noseda, che per la prima volta si è cimentato nella terribile partitura – una di quelle che aveva fatto tremare le vene e i polsi ad Arturo Toscanini che proprio a Torino la diresse nel 1897 – ha dato prova della sua ineguagliabile bravura e versatilità nel cimentarsi in un repertorio vastissimo che, per intenderci, spazia dall’opera francese (Gounod e Massenet) ispessendosi magistralmente al migliore Verdi per approdare al monumento wagneriano che solo per la novità val bene un viaggio a Torino.

Noseda ha diretto all’italiana facendo cantare l’orchestra e concedendo ai leitmotiv della partitura una fluidità ed una spazialità armonica da farli interconnettere perfettamente l’uno con l’altro e uno nell’altro a differenza di molte direzioni d’orchestra che, al contrario, prediligono la creazione di un suono compatto nel quale i temi conduttori sono tra loro cementati in un blocco sinfonico che talvolta mette in difficoltà la stessa voce.

Interessante notare come il Direttore d’orchestra, notoriamente conosciuto per il gesto deciso, ed a tratti nervoso, siasi dovuto confrontare con una partitura formata da lunghissime pause e da silenzi che sono essi stessi musica (il tema del blick – lo sguardo tra i due amanti o il tema del desiderio e morte, meglio conosciuto come il celeberrimo Tristan accord) e sospensione dell’essere nell’attesa dell’eterno divenire.

Di contro l’orchestra del Regio si conferma ancora una volta uno dei migliori complessi internazionali: duttile, capace di forgiare un suono purissimo e senza alcuna sbavatura che, si sa, nelle orchestre allignano generalmente nella zona dei fiati e degli ottoni; è quindi notorio che ai professori del Regio si può chiedere qualsiasi cosa e lo dimostra la piena padronanza con cui hanno affrontato il sinfonismo del Tristan. In particolare il secondo atto si è rivelato un miracoloso caleidoscopio di colori e sfumature, dell’alternanza tra bianco-nero, giorno-notte tra suoni che accarezzavano, talvolta sferzavano l’ascoltatore guidandolo nel complicato psicologismo che Wagner ha concepito per l’amore Uranio e la coppia Tristan – Isolde.

Molto condivisibile la scelta della direzione artistica di proporre in Italia l’intelligente allestimento Zurighese firmato da Claus Guth che fonda il suo punto di forza nel concetto dell’imborghesimento del simbolo ideale dell’amore.

Nella sua concezione del Tristan il simbolo stesso dell’amore, la coppia la cui indissolubilità si fonda sulla semplice particella “und” diviene l’amore intenso e contrastato di una coppia borghese le cui vicende evocano il sentimento che il Maestro concepì per la giovane Matilde Wesendonck, all’epoca sposa del ricco mercante Otto Wesendonck (che nell’opera è la personificazione di Re Marke).

In linea con tal concezione secolare della vicenda la scena era formata da una complicatissima piattaforma girevole con tanto di ambientazione in una casa alto borghese, con tanto di giardino d’inverno, corridoi, stanze e disimpegni nei quali i cantanti transitavano durante lo svolgimento dell’azione mercé la rotazione del piano scenico che di volta in volta mostrava i vari ambienti.

L’idea, per vero, non è nuova: la trasposizione terrena dell’amore celeste musicato da Wagner era già stato concepito in un articolo del grande musicologo Teodoro Celli intitolato “la vendetta di re Marke”, ma per la prima volta essa viene scenicamente realizzata in una produzione d’opera.

La naturale brevitas di cui un articolo di recensione deve compendiarsi impone allo scrivente di porre in luce solo due aspetti, invitando, naturalmente il lettore ad assistere all’intero spettacolo.

Il momento immediatamente successivo alla somministrazione del filtro d’amore mirabilmente scolpito da Wagner con la sovrapposizione dei temi dell’amore, morte, sguardo e del filtro magico sono arricchiti dal regista da una nota di imbarazzo che percorre i due giovani scopertisi amanti.

È così che l’amore ideale assume un tono borghese: Tristan, dando le spalle ad Isolde, compie un gesto ripetitivo e non finalizzato accendendo e spegnendo la luce del lume accanto al letto; Isolde, in apparente indifferenza, si affaccia alla finestra senza vedere l’orizzonte.

Parimenti nel secondo atto l’incontro dei due amanti avviene nell’ambito di una festa, tra brindisi e danze, immersi in una pletora di invitati distratti e talvolta immobili tra i quali i primi si cercano come in un’ideale tortuosa via che simula il bosco indicato nella didascalia del libretto.

Le due compagnie di cast confermano l’alto livello raggiunto nella produzione.

Splendida, sognante, emblema di una Isotta che evoca la figura terrena dell’eroina, Ricarda Merbeth – che già si aveva avuto occasione di ascoltare nel diverso ruolo di Elisabetta nel Tannhauser – è un soprano lirico puro dal timbro gradevolissimo ed omogeneo in tutte le sue parti. Da artista intelligente qual è ha saputo cogliere le peculiarità del ruolo di Isolde (che richiede un timbro da lirico spinto a drammatico) senza mai farsi mettere in difficoltà dal registro centrale – quasi mezzosopranile – della partitura.

Peter Seiffert è un cantante wagneriano di lunghissimo corso, magnifico Lohengrin e Sigmund ha evidenziato qualche sofferenza nel difficilissimo e lunghissimo ruolo di Tristan che solo nel terzo atto è impegnato quasi in 45 minuti di canto tutto impostato sul registro del forte. Resta comunque la sua interpretazione pietra miliare nella letteratura delle produzioni wagneriane per l’impostazione, l’eleganza e l’acquisito approfondimento del personaggio.

Difficoltà maggiori sono toccate alla Brangania interpretata da Michele Breedt, non sempre sicura nel fraseggio e talvolta stanca, complice forse il suo impiego in tutte le recite non sempre alternate a giorni di riposo.

Grandi e lunghi applausi a Steven Humes (Re Marke) dal bellissimo timbro di basso e Martin Gantner (Kurwenal) dalla presenza scenica poderosa e ben recitata. Convincenti e prove di Jan Vacik (Melot) e dei comprimari Joshua Sanders (pastore), Franco Rizzo (timoniere) e Patrick Reiter (marinaio) prsonaggi solo apparentante secondari perché simbolo di una trasfigurazione dell’ideale viaggio a “vele spiegate” di un amore che trova la sua sublimazione nella morte.

Pietro Puca

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