“Faccio Casablanca perchè ne ho bisogno. Poi la svedese recita bene. Ma è tutto pasticcio di luoghi comuni. Dall’inizio alla fine.” Così Bogart all’inizio delle riprese di uno dei cult – forse del cult dei cult – di tutti i tempi.
In realtà l’attore – e non usando la parola archetipi: gliene siamo particolarmente grati – non faceva altro che rilevare come in Casablanca storia, situazioni e personaggi costituissero una massa critica di archetipi – appunto – di tale intensità e potenza da innescare la fatale reazione a catena che produce il capolavoro.
In altre parole in Casablanca tutto è scontato e per ciò stesso è tutto perfetto. Se gli sceneggiatori – Oscar a entrambi – se il regista Michael Curtiz – Oscar anche a lui – avessero sfoltito la parata dei cliché, se avessero osato di più in termini di originalità, avrebbero indispettito il pubblico e nient’altro. Perché i creatori di Casablanca ci invitano a casa nostra; e a casa nostra non si spostano i quadri o i mobili se non siamo d’accordo con l’architetto.
Con The Butler siamo da quelle parti. Tutto è scontato, ai limiti e oltre il tollerabile; ma per questo tutto è perfetto. Pensiamo solo alla carrellata dei presidenti in cui il protagonista Cecil Gaines s’imbatte alla Casa Bianca (casa blanca: strano.): Eisenhower è ovviamente incerto e saggio; JFK è bello e coraggioso e naturalmente Jackie, alla fine del segmento-Camelot, mostra allo spettatore, sul vestito rosa più tragico e famoso della storia, il sangue del marito ucciso; Nixon è il Dirty Dick ma anche Macbeth; Johnson è il rozzo texano che dirige lo Stato mentre defeca con difficoltà ma che, pure, fa approvare la legislazione sui diritti civili che Kennedy aveva fatto solo in tempo a incardinare al Congresso; Ronnie Reagan è un simpatico signore di gran buon senso ma che si prende il lusso di stupire se stesso e la storia, cambiandola. In ultimo, Obama: compare solo nelle immagini della sua prima, kerigmatica campagna elettorale, colto in una dimensione evidentemente messianica. E, alla fine del film, verso questo Unto si avvierà Cecil Gaines, innalzato quasi al rango di un precursore, di un Giovanni il Battista del Messia finalmente manifestatosi.
Pura autocelebrazione in stile americano? Certo. Ma un paese che racconta se stesso dai campi di cotone degli anni Venti – schiavismo appena mascherato, segregazione, assenza di legge o minimi diritti- fino alla redenzione obamiana, può permetterselo.
Semplicismo storiografico? Certo. Kennedy non fu Artù e Nixon non è stato solo Macbeth. Ma chi voglia giocare al piccolo storico, non ha da fare altro che comprarsi una decina di libri e abbonarsi a una seria rivista di politica internazionale. Ma The Butler è cinema, non è una conferenza; è un racconto misto di storia e invenzione che della storia vuole restituire non i piccoli o i grandi “come” ma solo gli irrinunciabili “perché”. E da Omero a Manzoni questo è stato compito della letteratura – ora del cinema – e non della storiografia
Dunque The Butler è cinema. Forse è il cinema, almeno come lo intende chi scrive: una grande storia – non una vicenduola da tinello di casa – ben raccontata, diretta con mano sicura, fotografata meravigliosamente, commentata da un paio di temi musicali francamente indimenticabili. E che – diamine – vuole dire qualcosa allo spettatore. Didascalismo? Sia: non è affatto un’offesa se il didàskalos ha la mano felice. Calligrafismo? Forse. Ma se immagini suggestive, se ambientazioni perfette, se la cura minuziosa dei particolari sono calligrafismo, va bene così. Tullio Kezich diede del “trovarobe” a Franco Zeffirelli. E allora evviva i trovarobe.
Infine gli attori: cinquanta sono le stelle dell’Unione e poco meno sono quelle che, talvolta solo per qualche istante, brillano nel film. L’Eisenhower di Robin Williams, il Nixon di John Cusack, la Annabeth Westfall di Vanessa Redgrave, la Nancy Reagan di Jane Fonda – due minuti scarsi in scena – sono lampi, supernove che abbagliano in rapida, mirabolante sequenza.
Il protagonista Forest Whitaker è un esempio di misura ed eleganza interpretativa. E lo è David Banner, il figlio di “Cecil” che, in contrasto politico col padre – contrasto che diventa, in puro mélo, urto familiare – scoprirà, alla fine, la verità dell’assunto di Luther King: “I maggiordomi di colore sono una minoranza eversiva perché offrono ai bianchi un’immagine dei neri che non corrisponde ai loro pregiudizi”.
? Certo: nell’86 ebbe una nomination all’Oscar per Il colore viola. Ma dal ’98, al cinema, non interpretava che se stessa, potente e temutissima conduttrice di un talk eponimo. Insomma: Come se, dalle nostre bande, Maria de Filippi interpretasse un film e ti facesse commuovere fino alle lacrime. O ridere fino alle lacrime. E non per un abbraccio tra parenti ritrovati o per qualche gaffe. Precotta.
Biagio Buonomo