Platonov, L’ambigua attrazione di un testo čechoviano orfano

Čechov ha vent’anni quando si cimenta per la prima volta con la scrittura teatrale. Fino allora non ha scritto che brevi racconti, spesso poco più che barzellette, che firma con lo pseudonimo Antoša Čechonté. Non ha ancora le idee chiare su come costruire un testo teatrale. Ne esce un’opera ipertrofica, lunga tre volte Il gabbiano o Il giardino dei ciliegi. Eppure, in quelle 170 pagine già pullulano temi che, dopo una quindicina di anni, percorreranno le sue opere maggiori.

Ma questo lavoro non ha fortuna. Anton Pavlovič lo sottopone al teatro Malyj, che lo rifiuta; lui ferito e deluso, lo distrugge. O almeno così pare. Perché, diversi anni dopo la sua morte, se ne ritrova una copia. Ma la prima pagina è andata perduta, e il lavoro viene pubblicato come P’esa bez nazvanija, (Opera senza titolo). Per portarlo in scena lo si intitola di solito col nome del protagonista, Platonov; ma nel Google russo è reperibile col titolo Bezotcobščina: un termine astratto (recuperato, a quanto sembra, da una lettera del fratello Aleksandr) che, a un dipresso, si può tradurre come “mancanza del padre”. Un’opera, quindi, sotto diversi aspetti, davvero orfana.

In Italia, alla fine degli anni Cinquanta ho avuto la ventura di assistere a una memorabile edizione dello Stabile di Torino diretta da Gianfranco De Bosio con Gianni Santuccio, intitolata Gli amori di Platonov. Molto più recente quella diretta da Nanni Garella, con Alessandro Haber. Ma, in Russia, vi si è cimentato Lev Dodin e, con quasi dieci anni di ritardo, è arrivata anche in Italia la splendida edizione cinematografica di Nikita Michalkov, del ’76, col suggestivo, geniale titolo Partitura incompiuta per pianola meccanica.

Non stupisce, quindi, che anche un giovane e intraprendente gruppo teatrale, Il mulino di Amleto, abbia scelto di cimentarsi con un materiale così complesso, magmatico, ma sicuramene denso di stimoli.

L’operazione compiuta dal regista Marco Lorenzi è coraggiosa, e sicuramente accurata. Una riscrittura drammaturgica era necessaria: la lunghezza del testo era impraticabile, e così il numero dei personaggi (più di venti). Assieme al dramaturg Lorenzo De Iacovo, spezzano e ricompongono la complicata rete dei nuclei familiari del testo originale. La libertà più significativa e ardita che si prendono è la sostituzione del quarto (e ultimo) atto con interventi didascalici che cancellano il finale, con la morte dell’eroe eponimo. Una scelta giustificata dal fatto che, nell’evoluzione della sua produzione teatrale, Čechov rinuncia progressivamente a esiti cruenti. È ancora Marco Lorenzi a spiegarmi che la decisione di mettere in scena Platonov nasce da un sincero desiderio di avvicinare il teatro di Čechov partendo dalla sua opera, in un certo senso, embrionale. Ciò lo spinge, per esempio, anche a fornire un sottotitolo, a integrare l’elenco dei personaggi con notazioni pertinenti, ma che non si trovano nell’originale.

La compagnia si dà con generosità, senza risparmio. Fra i giovani, da segnalare almeno Roberta Calia, la “generalessa”, e la vitale Barbara Mazzi; fra i più maturi, Stefano Braschi e, nel difficile, proteiforme ruolo del contraddittorio, seducente protagonista, Michele Sinisi. Ben orchestrati i momenti d’insieme (quasi un continuum); e vodka sparsa ovunque, in uno spazio scenico modulato da un’ingegnosa vetrata mobile, funzionale alla riscrittura drammaturgica.

Tuttavia, pur in presenza di uno spettacolo degno di rispetto, sorgono alcune riserve. Intanto l’uso delle riprese, tipo selfie. Si direbbe che, senza un po’ di immagini, riprese e proiettate in tempo reale, oggi non si possa più costruire uno spettacolo teatrale. Qui, in alcuni pochi momenti questo ormai abusato espediente espressivo trova una sua ragion d’essere; ma il suo utilizzo pervasivo è disturbante, distoglie lo spettatore dall’azione principale. Anche l’inserimento di un gratuito scherzaccio goliardico, che suscita forse qualche facile applauso, è incongruo, estraneo alla misurata, discreta poetica čechoviana. Ma ciò che suscita le maggiori perplessità è l’innesto di frammenti delle successivi opere čechoviane. Non ce n’è bisogno: nell’ipertrofico, lutulento testo del Platonov, intriso delle tensioni ideali e dei temi che stanno germogliando nella sua mente di Anton Pavlovič, c’è già tutto. C’è il grande tema dello sfacelo di una classe sociale, che diverrà esplicito e centrale nel Giardino; c’è persino la figura di Osip, ambiguo vagabondo e ladro di cavalli che anticipa la figura, a un tempo affascinante e temibile, di Egor Merik, che cinque anni dopo Čechov inserirà nel poco frequentato atto unico Sulla strada maestra, e riprenderà col medesimo nome e ruolo nello splendido racconto Ladri, del ’90. Aggiunte frammentarie, dettate dal lodevole desiderio di mostrare le continuità con le successive opere maggiori, ma inutili e filologicamente fuorvianti.

Un’ultima, pedante osservazione da amante – ancorché non corrisposto – della lingua russa. Chi mette in scena Shakespeare, di regola si preoccupa della corretta pronuncia dei nomi inglesi, ancorché spesso non proprio intuitiva, come ad esempio in “Gloucester”. Perché i poveri nomi russi, pur in un lavoro accuratamente documentato come questo, scritti in locandina o detti in scena, non possono essere oggetto della medesima attenzione?

Platonov – un modo come un altro per dire che la felicità è altrove.

Da Anton Čechov

Uno spettacolo di Il mulino di Amleto. Regia di Marco Lorenzi; riscrittura di Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo.

Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea.

Con: Michele Sinisi, Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca.

Visto al Teatro Fontana di Milano il 6 novembre 2018

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