L’opera da tre soldi al Piccolo Teatro non convince

Affrontare un testo la cui messa in scena, a distanza di anni, fa ormai parte della storia (per non dire della mitologia) del teatro, è sempre una scommessa ardita. Così è stato per il Galileo, nella recente regia e interpretazione di Gabriele Lavia, oltre mezzo secolo dopo l’edizione strehleriana.

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali
L’OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

Qui è lo stesso Piccolo Teatro che affida al giovane ma già affermato Damiano Michieletto una nuova produzione de L’opera da tre soldi, dopo le due, ormai leggendarie regie di Strehler, del ’56 e del ’73. Per coloro che, come chi scrive, ha avuto la ventura di assistere almeno alla seconda (in scena Gianrico Tedeschi, Giulia Lazzarini, Domenico Modugno, Milva, Gianni Agus) è difficile non cedere alla tentazione di un confronto, che fatica ad essere oggettivo ed imparziale: la memoria è un oggetto plastico, che tende a contaminarsi con la nostalgia, col mito di un’età dell’oro.

Ciò premesso, lo spettacolo in scena in questi giorni al Teatro Strehler, pur apprezzabile per il notevole sforzo produttivo e diversi innegabili pregi, suscita alcune perplessità.

L’idea portante della regia consiste nel ricostruire l’intera vicenda come in flash back, nel corso di un dibattimento processuale. Da un lato, questa scelta drammaturgica offre l’opportunità di una certa suggestività scenografica (un’aula bunker, circondata da alte inferriate, ove lo scranno del giudice, i banchi dei testimoni, gli arredi, sono spostati a vista dagli stessi attori); dall’altro, costituisce un contesto incongruo per quelle azioni teatrali che prevedono una comunicazione più personalizzata, per non dire intima, fra i personaggi: una scelta che non sarebbe giustificata neppure da un esasperato omaggio all’epica brechtiana.

La lucente, vistosa cascata di strisce dorate del sipario crea un immediato contrappunto rispetto alle luci, spesso livide, della scena, con le tonalità, ora terrose, ora pastello dei costumi, ma quella rutilante cifra cromatica ritorna nelle scene del bordello, che risultano però più affini a balletti televisivi che al cabaret espressionista, nella cui temperie nasce l’opera di Brecht.

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali
L’OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

Accattivanti i ricorrenti fermo immagine, nei momenti in cui si accenna all’incoronazione della regina, mentre un personaggio, sbucando di quinta, percorre l’intero proscenio, per posare una corona regale e vassoi di vivande su un tavolino posto al limite dello spazio scenico. Teatralmente efficace anche la soluzione registica adottata per la canzone di Jenny dei Pirati, cantata dalla prorompente, picassiana Rossy De Palma, mentre dalle molteplici fessure del luccicante sipario, calato alle sue spalle, sbucano bramose mani maschili.

I personaggi vestono in abiti moderni, ma il testo originale brechtiano è sostanzialmente rispettato; tuttavia, qualche libertà il regista se la prende, come l’accenno al Giubileo, a giustificazione della grazia accordata a Mackie Messer, un istante prima della sua impiccagione.

Più opinabile la soluzione della processione degli straccioni, minacciata da Peachum per indurre il capo della polizia ad arrestare il bandito. Nell’edizione strehleriana del ’73, quella scena aveva una forza e un impatto emotivo da stappare puntualmente un applauso a scena aperta. Michieletto trasforma i mendicanti in migranti; li spoglia, li riveste di giubbotti salvagente arancione che si sfileranno, scomparendo in alto, suggerendo la tragedia di un annegamento di massa. Una scelta, a sommesso parere dello scrivente, incongrua rispetto alla contrapposizione dialettica, alla voluta ambiguità etica che quasi sempre connota l’impegno civile di Brecht; un richiamo all’oggi non necessario, se non, addirittura, una discutibile operazione di facile captatio benevolentiae.

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali
L’OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

Ma, per un “pezzo con musica” (con questa espressione si proponeva, nel ’28, L’opera da tre soldi, di Bertolt Brecht e Kurt Weill) è doveroso fornire almeno qualche informazione musicale.

Rinvio a sedi più qualificate l’illustrazione di quella feconda stagione, in cui il jazz sta confluendo nella musica cosiddetta seria, nelle opere di Stravinskij, di Gershwin, di Ravel. Ma val tuttavia la pena di sottolineare il lavoro, non appariscente, sotteso alla regia e determinante per la riuscita dello spettacolo, effettuato da Giuseppe Grazioli, direttore e concertatore degli elementi dell’orchestra Verdi di Milano: il recupero filologico degli impasti timbrici, propri degli strumenti originali (suonati, all’epoca di Brecht e Weill, da un numero ristretto di valenti polistrumentisti); l’attenzione a un’integrazione dinamica e agogica fra musica, parola detta e parola cantata.

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali
L’OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

Un’ultima notazione sugli attori, di regola attori cantanti, e non cantanti attori, con l’unica eccezione di Peppe Servillo; molti i giovani, per lo più padroni dei loro ruoli, diretti con efficacia nell’impegnativa presenza pressoché costante in scena. Sorprendenti alcune prestazioni vocali, come quelle di Stella Piccioni (Lucy), Maria Rovaran (Polly Peachum), Giandomenico Capaiuolo (il cantastorie). Eppure…

Eppure, a parte le riserve di regia sopra dette, nell’insieme della confezione c’è qualcosa che non convince, che non prende; e non credo si tratti solo della nostalgia per un’ingombrante leggenda, coltivata da un anziano laudator temporis acti.

È come se, allo spettacolo, mancasse un soffio di energia vitale. Solo la già citata Rossy De Palma sa immettervi un calore di carne e di sangue, ma la temperatura rimane bassa; non bastano, ad alzarla, i frequenti applausi a scena aperta di una platea – moltissimi i giovani – cui si direbbe manchino, con la memoria storica, i termini di paragone.

Claudio Facchinelli

 

L’opera da tre soldi

di Bertolt Brecht e Kurt Weill

traduzione di Roberto Menin

traduzione delle canzoni di Damiano Michieletto

regia di Damiano Michieletto

direttore Giuseppe Grazioli

scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti

con (in ordine alfabetico) Martin Ilunga Chishimba, Luca Criscuoli, Jacopo Crovella, Giandomenico Cupaiuolo, Lorenzo De Maria, Rossy De Palma, Pasquale Di Filippo, Margherita Di Rauso, Marco Foschi, Sergio Leone, Lucia Marinsalta, Daniele Molino, Sandhya Nagaraja, Matthieu Pastore, Stella Piccioni, Maria Roveran, Peppe Servillo, Claudio Sportelli, Giulia Vecchio, Sara Zoia

e l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi

Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

Al Piccolo Teatro Strehler dal 19 aprile all’11 giugno 2016

Visto il 19 aprile 2016

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