Nell’inclita schiera che popola il declinante, asimmetrico spazio scenico della Celestina, assieme ad attori che lavorano da anni con Luca Ronconi, ci sono anche degli esordienti. Fra questi, un’attrice decisamente fuori sacco: l’unica – credo – che non esce da una scuola o da un’accademia di arte drammatica.
Ironica e diretta, ai limiti della naïveté, esuberante nel carattere e nel fisico, Licia Lanera, trentenne barese, laureata in lettere, dopo essere stata scartata alle selezioni per entrare in accademia, nel 2006 fonda assieme a Riccardo Spagnulo, suo compagno d’arte e di vita, Fibre Parallele, una compagnia “a conduzione familiare” che è andata via via consolidando una sua poetica originale, ad un tempo surreale e terragna, mistica e blasfema, conseguendo riconoscimenti prestigiosi.
Com’è che sei stata chiamata da Ronconi?
A Venezia, alla Biennale, avevo seguito, come regista, una sua master class. Poi l’avevo invitato ad assistere a “Furie de sanghe”, e mi aveva visto anche in scena. Mi ha chiamato dopo qualche mese, ed ero convinta che mi avrebbe offerto di fare l’assistente. Invece mi ha detto che c’era un ruolo perfetto per me. In effetti, mi sono accorta che Elicia, l’amante del servo Sempronio, mi stava addosso a pennello, era nelle mie corde: una donna viscerale, barbarica, violenta.
Come è stato lavorare con Ronconi?
Bellissimo e durissimo. È un uomo esigente; richiede cose molto precise. Ma è un faro, di una intelligenza straordinaria; vede cose che noi umani non vediamo. Mi verrebbe da dire che è una sorta di veggente. Lui arriva con un impianto chiaro in testa, ma poi è disposto a cambiare, anche in corso d’opera, se si accorge che l’idea non regge alla prova dei fatti.
Cosa pensi del suo gusto, quasi da ingegnere rinascimentale, per le sue machinae?
Come regista, l’uso, la scansione, l’invenzione dello spazio mi affascinano. La Celestina, poi, è un’opera architettonica. Sotto il palcoscenico c’è un’intera città popolata da macchinisti. Per gli attori ciò rappresenta un pericolo: buttarsi nelle botole, non inciampare nelle cerniere, un declivio del 30% e, in larghezza, del 20%. Dobbiamo percorrere quegli spazi con fatica – ci diceva Ronconi – così come è faticosa la vita di questi personaggi. Ma è una vera goduria. È un meccanismo costruito artigianalmente, e azionato a mano, per lo più tirando delle corde. Dietro ci sono persone, non tecnologie elettroniche”.
Come avete affrontato la particolarissima struttura testuale della Celestina?
Un monito ricorrente di Ronconi è stato:”Non dialogate”. Ci ha fatto fare un lavoro straordinario sul testo, un’analisi che evidenziava contenuti che sfuggivano a una prima lettura: ci siamo accorti che ognuna di quelle parole conteneva un mondo. Spesso, nel teatro contemporaneo, per esprimere un concetto ci si abbandona a lunghi discorsi. Qui, invece, tutto è racchiuso in un verso, in due versi. E allora devi far conto su ogni singola parola, non puoi buttarla via, liquidarla. Ronconi è un vero speleologo del linguaggio.
Cosa ha significato, per te, calcare per la prima volta il palcoscenico del Piccolo Teatro?
Ti dirò: la cosa mi ha impressionato fino a un certo punto. Per me importante è stato piuttosto lavorare con un regista e con dei colleghi straordinari. Io mi considero una regista, non un’attrice. Nella mia compagnia dirigo me stessa, e prima non avevo avuto esperienze con registi importanti, ma con compagnie piccole, nel mio territorio. Per la prima volta, improvvisamente, sono passata al top del top. E questo mi ha un po’spiazzato: non ero a casa mia, non solo in senso geografico, ma culturale. Avevo difficoltà a recitare in versi. I miei colleghi già conoscevano il lavoro di Ronconi, capivano il suo linguaggio, mentre io dovevo entrare nel meccanismo. Ho creduto di non farcela, avevo delle difficoltà; Ronconi è stato anche molto duro, in certi momenti.
Ma poi sono riuscita a reagire, a risolvere in energia tutte le difficoltà, e sono esplosa. Da quel momento tutto è andato a posto, come per incanto.
Sai, lavorare con attori di maggior esperienza, e di tale calibro, non mi era mai capitato. Io e Riccardo siamo cresciuti insieme, e lo stesso con gli altri della nostra compagnia. Qui era diverso: lavoravo con personaggi che avevo conosciuto solo assistendo ai loro spettacoli, dalla platea.
Uno dei doni più grandi è lavorare con qualcuno più bravo di te: non ti accontenti mai, sei spinta a fare sempre di più; e questo vale per Maria Paiato, Paolo Pierobon, Giovanni Crippa. Con Fausto Russo Alesi, poi, ho molte scene, e ogni volta con lui accade qualcosa di nuovo: è uno che si mette in ascolto, e con lui tutto diventa tremendamente vivo. È un attore meraviglioso.
Claudio Facchinelli