C’era una volta la TV che insegnava, vigeva il monopolio della tv di stato, “Mamma Rai” educava e formava un popolo fino ad allora diviso da profondi solchi che distinguevano ragioni sociali, educazione, cultura e linguaggio. Palesemente educativa e didattica era la presenza di Alberto Manzi, che aiutò i tanti analfabeti che popolavano l’Italia ad uscire dal loro stato, ma c’era anche la tv dei grandi sceneggiati o quella della prosa del venerdì, che portava a conoscenza dei telespettatori, anche i non abituali lettori ed i non frequentatori delle sale teatrali, capolavori della letteratura e della drammaturgia mondiale. Dostoevskij, Manzoni, Cronin, Dickens, le sorelle Brontë, ed i loro immortali romanzi, ma anche tutta la storia del teatro, da Eschilo all’allora contemporaneo Eduardo De Filippo, entravano nelle case degli italiani, che così si imbattevano in quella cultura che, seppure presentata in alcuni casi con didascalica ingenuità, formava in maniera basale la conoscenza di cittadini che, se motivati, sarebbero poi andati ad approfondire con interesse in teatro ed in libreria, formando così pubblico e lettori consapevoli. Poi, però, con gli anni ’80 e con i successivi due decenni, qualcosa succede. Nasce la tv commerciale e la concorrenza si palesa con una gara ad abbassare il livello delle trasmissioni, nell’intento di accaparrarsi la fetta di pubblico più grossa, blandendo i cittadini con il vuoto vestito di lustrini, barzellettieri travestiti da cabarettisti, bambole senza talento camuffate da soubrette usa e getta, cantanti senza anima ma con tonsille ben curate che urlano canzoni preconfezionate, e soap opera e fiction che prendono il posto degli sceneggiati, svuotandoli di qualsiasi valore culturale. Con gli anni ‘10 del ventunesimo secolo il panorama della programmazione televisiva cambia ancora. Nasce la tv satellitare, si diffondono i programmi in streaming, ed canali monotematici, alcuni dei quali, dedicati alla cultura, aprono il ventaglio delle proposte, certo, bisogna cercare e scegliere, ma la possibilità di vedere programmi che non siano giochi d’azzardo travestiti da pacchi postali c’è. A questo punto l’esigenza della tv commerciale, ma, naturalmente, anche di quella di stato, cambia: bisogna togliere pubblico anche a chi, grazie a repliche di programmi del periodo d’oro, o di provenienze stranera, divulga una tv, seppur di nicchia, di qualità, con il rischio di far alzare le richieste culturali. Ed ecco che ritornano i grandi classici, che utilizzano titoli di capolavori immortali che,con l’annunciato intento di ringiovanirne e rinverdirne i fasti, vengono proposti ad un pubblico che assume, senza un consapevole senso critico, tra un reality ed una talent, tra una ricetta di cassata siciliana ed un plastico di una scena di crimine, la versione fast food dell’”Odissea” e di “Romeo e Giulietta”, con buona pace di Franco Rossi e di Franco Zeffirelli, e, soprattutto, di Omero e Shakespeare. Si, perché delle opere dei più grandi autori della storia della letteratura mondiale le fiction “Il ritorno di Ulisse” e “Romeo e Giulietta”, in questi giorni sugli schermi rispettivamente di RaiUno e Canale5, non hanno nulla se non la superficie.
Il film tv di Stèphane Giusti sul ritorno ad Itaca dell’ideatore del cavallo di Troia risulta una patinatissima opera di banalizzazione del capolavoro omerico, i personaggi maschili hanno muscoli e depilazione perfetta, le donne curve e portamento da top model, in una sorta di mascherata senza anima, in cui Mentore ama segretamente Penelope, Telemaco viene iniziato al sesso dalla schiava micenea che poi tradirà il segreto di Penelope unicamente per distrarre i Proci dall’uccidere il suo amato principe. E la storia, con il vecchio e malandato Laerte che qui ha la prestanza fisica di un gladiatore romano, mentre Penelope (Caterina Murino) come le dark lady di Beautiful si vendica della schiava donandola al cantore che tenterà di sedurla (!), ci porta finalmente a conoscere Ulisse, che ha il volto dell’attore Alessio Boni (quindi lo stesso di Giacomo Puccini, Michelangelo da Caravaggio e Walter Chiari) il quale ha dichiarato alla stampa che il suo Odisseo è fedele alla realtà ma “non a quello che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola: è vendicativo, assetato di sangue quando torna a Itaca, è più al passo con i tempi”, ci spiegherà, si spera, il simpatico e spesso bravo attore, quale fonte dotta abbia utilizzato che non sia quella del grande Omero, che è, per l’appunto, quello che tutti abbiamo conosciuto sui banchi di scuola.
Ma lo scempio maggiore, a nostro giudizio, è quello praticato dal regista Riccardo Donna sui due amanti veronesi, che, nella fiction su Canale5 non sono più concittadini dell’Arena e del Pandoro, ma si aggirano fra innevate vette del Trentino, nei castelli che fanno da sponsor al film, così come ci ricorda lo spot a fine trasmissione. Nulla in contrario dal creare un’originale opera filmica sulla coppia di adolescenti che muoiono per colpa della faida fra le loro due famiglie, Shakespeare non è stato ne’ il primo ne’ l’ultimo autore ad ispirarsi a loro, ma ci si chiede perché, allora, utilizzare intere frasi (naturalmente banalizzate ed annacquate in un mare di inconsistenza) tratte dai versi del Bardo, modificando la natura dei personaggi e inventandone addirittura nuovi, tra cui l’assurda fantomatica sorella maggiore della protagonista, Ursula, che contende alla minore i favori dell’odioso Paride, trascinando la storia verso un’indisponente trasposizione di soap giovanilistica, con un Mercuzio depresso per amore che paventa suicidio, gli adolescenti protagonisti con le fattezze dei trentenni Martiño Rivas ed Alessandra Mastronardi, tutti azione e sex appeal, e con Elena Sofia Ricci che nei panni della Balia ripete in maniera ossessiva preghiere di raccomandazione a Nostro Signore, suscitando involontaria ilarità, poiché ricorda molto più la suora che interpreta in una nota fiction che il personaggio che fu cavallo di battaglia della meravigliosa Ave Ninchi. Insomma più che a Shakespeare gli autori sembra abbiano pensato a Federico Moccia, e non ci meraviglieremmo se alla puntata conclusiva, prima di partire per l’esilio a Mantova (ammesso che Donna abbia ritenuto di conservare questa scena) Romeo decidesse di lasciare un catenaccio sul ponte levatoio del suo castello.
Se questa è la nuova missione della televisione, ovvero aumentare la confusione e la superficialità culturale dei nostri giorni, allora meglio che le nuove generazioni si dedichino a facebook, magari potrebbero imbattersi in qualche profilo in cui qualche nostalgico decide di postare i filmati di quando dalla televisione si imparava o, perchè no, vedere su youtube le più fedeli e divertenti parodie del Quartetto Cetra nell’indimenticabile “Biblioteca di Studio Uno”
Gianmarco Cesario