La magica luna di Angelo Bertini al Festival Pucciniano di Torre del Lago.
Angelo Bertini è l’artefice dell’ultimo allestimento di “Turandot”, di nuovo in scena il 7 agosto 2015 sul palcoscenico del Gran Teatro Giacomo Puccini di Torre del Lago per la 61° stagione del Festival Pucciniano. L’opera, musicata da Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, andò in scena per la prima volta il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala di Milano. Per la sua nuova regia, Angelo Bertini tiene conto della fonte da cui è tratta l’opera: la fiaba teatrale “Turandotte” di Carlo Gozzi.
Fin dal LA dato dal primo violino, che precede l’inizio dello spettacolo, fin dalle prime note, potenti, gravi, irruenti, dell’orchestra, l’opera “Turandot” di Giacomo Puccini ci avvolge, introducendoci in una bellissima favola che, pur ambientata in una dimensione spazio-temporale antica e remota, mostra i segni del primo Novecento, emblemi che caratterizzavano la vita e la moda di quegli anni ’20 e che ispirarono anche il maestro Puccini nel musicare la fiaba teatrale “Turandotte” di Carlo Gozzi. Giacomo Puccini, come il Calaf della propria opera, ebbe la fortuna di vivere in un’epoca ricca di stimoli, complice la modernità, incombente anche nel mondo dell’arte, grazie a personaggi all’avanguardia quali Adolphe Appia, Gordon Craig e Max Reinhardt, ma anche alle tendenze dilaganti, come l’Art Déco, l’esotismo. Permane, tuttavia, un’atmosfera favolistica, come se “Turandot” fosse una fiaba antica, innovativa per i mezzi tramite i quali è raccontata, ma che non può fare a meno di far viaggiare gli spettatori, almeno per un attimo, in un sito arcaico.
Per il popolo di Pechino Turandot è una principessa crudele. Nonostante ciò, splende come una pietra preziosa e molti principi vengono da lontano per affrontare i suoi tre irrisolvibili enigmi, quindi la morte, pur di averla. «Gli enigmi sono tre, la morte è una!», «No, no! Gli enigmi sono tre, una è la vita!», Turandot è simbolo di luce e di vita: o lei, o la morte. La misteriosa principessa, se analizzata in termini psicoanalitici (e del resto la psicoanalisi è ormai diffusa ai tempi di Puccini), è diventata cattiva in seguito a un trauma, a una sofferenza, a una paura, che l’ha segnata, rendendola fredda come un candido marmo bianco, eppure lucente. L’amore, la comprensione, un vento caldo che giunge inaspettato, nonostante il gelo che sembra non voler andarsene dal regno, riscalda il cuore della bella Turandot, coronando l’opera di un trionfante finale lieto. Un pubblico che non ha solo orecchie, ma anche occhi, un pubblico che, per di più, non è sempre abituato all’ascolto, si aspetta forse una bellissima e giovanissima principessa, simile a quella controfigura che appare dalla grande luna che domina la scena alla fine del primo atto. Ma dopotutto, chi meglio di Giovanna Casolla può interpretare Turandot? Vent’anni di esperienza e una voce potente tanto da dominare su tutti gli altri interpreti, la rendono sicuramente degna del ruolo.
Bravissima anche Alida Berti, che interpreta strepitosamente Liù, la martire, che ci ricorda che anche il lieto fine comporta dei sacrifici. Lasciano invece un po’ perplessi, non brillando come la prima e la seconda donna, Luigi Roni nel ruolo di Timur e Marco Voleri nel ruolo dell’imperatore, che comunque non si merita di precipitare dal trono nel gran finale, incidenti che non dovrebbero mai capitare, ma che purtroppo talvolta si verificano. Bravi Ping, Pong e Pang (Niccolò Ayroldi, Gregory Bonfatti e Orfeo Zanetti), personaggi resi più interessanti dalla regia di Bertini: sono marionette e allo stesso tempo burattinai, artefici della trama del racconto, come se Turandot non fosse responsabile della sua stessa crudeltà. Curioso anche il personaggio del mandarino, che apre l’opera; nella regia bertiniana, con unghie lunghissime, il mandarino sembra una veggente che predice il futuro. Il tenore Rubens Pellizzari, Calaf, non eccelle nel celebre “Nessun dorma”, ma ha una buona presenza scenica, è intonato e ci dona un’interpretazione lineare, cosa non da poco per la riuscita di uno spettacolo. L’orchestra è ben diretta da Bruno Nicoli, con solo qualche istante d’inevitabile titubanza, dovuta a cause di forza maggiore come gli applausi di quel pubblico che dovrebbe sapere che non è buona abitudine applaudire nel bel mezzo di un’aria d’opera.
Scene e costumi rimandano, coerentemente, all’Art Nouveau. Per i costumi in particolare si potrebbe forse intuire anche una simbologia dei colori, del rosso dei popolani, del candore della principessa. “Turandot” è un’esplosione di colori, è eleganza, è vivacità ma anche austerità e trionfo. Il regista riesce a coordinare il tutto senza lasciare niente al caso. Se solo il regista fosse davvero un burattinaio, l’enorme quantità di cantanti, figuranti, ballerini, il tutto apparirebbe come perfetto. Mancherebbe l’emozione, forse preferibile a qualche errore scenico. Il pubblico, del resto, esulta se emozionato.
TORRE DEL LAGO – Gran Teatro Giacomo Puccini, 7 agosto 2015.
Benedetta Colasanti
TURANDOT – Regia, scene e costumi: Angelo Bertini; la Principessa Turandot: Giovanna Casolla; il Principe Ignoto (Calaf): Rubens Pelizzari; L’imperatore Altoum: Marco Voleri; Timur: Luigi Roni; Liù: Alida Berti; Ping: Niccolò Ayroldi; Pang: Gregory Bonfatti; Pong: Orfeo Zanatti; un mandarino: Claudio Ottino; Principe di Persia: Roberto Ferraro; I Ancella: Francesca Borrelli; II Ancella: Sofia Nagast; direttore d’orchestra: Bruno Nicoli; disegno luci: Valerio Alfieri; assistente alla regia: Luca Ramacciotti; orchestra: orchestra del Festival Puccini; coro: coro del Festival di Puccini; maestro del coro: Stefano Visconti; coro delle voci bianche: coro delle voci bianche del Festival Puccini; maestro del coro delle voci bianche: Sara Matteucci.