Buffa prova uno spettacolo anti-televisivo, ma quasi teatrale

Lo sport di solito è raccontato dalla televisione: soprattutto il calcio nelle sue varie forme, ma anche olimpiadi, grandi eventi, nuovi eroi. Un business enorme quello dei diritti televisivi, capace di svuotare di pubblico le arene sportive e di condizionare fortemente le serate di tanti nuovi telespettatori. E di produrre un nuovo modo di raccontare le imprese dello sport, che da sempre hanno avuto grandi narratori, spesso molto popolari e non solo sulla carta stampata. Federico Buffa è sicuramente il miglior interprete del racconto delle nostra contemporaneità sportiva: capace di esaltare il mezzo televisivo nelle sue performance orali, ma anche stretto tra le maglie di una programmazione sempre meno disposta a concedere spazio ad una narrazione libera e scompaginante, rispetto alla continua omogenizzazione culturale dei palinsesti televisivi.

“Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio” ripetono i credits di una famosa trasmissione di Buffa che ha raccontato la storia di vecchie glorie del calcio, un frase ripresa da un famoso allenatore portoghese per provare ad azzardare la definizione di una prospettiva non solo estetica da adattare al flusso delle sue parole. Buffa passa al teatro, la sua narrazione cerca altre strade, le sue parole diventano uno spettacolo, Le Olimpiadi del 1936, curato insieme a Emilio Russo, Paolo Frusca e Jvan Sica, che è stato recentemente presentato al Teatro San Carlo di Napoli per l’ultima edizione del Napoli Teatro Festival Italia.

Federico Buffa ripropone le sue storie, sportive e necessariamente non solo sportive, in scena davanti ad una sala molto affollata e curiosa. Il passaggio da un mezzo all’altro riesce, ma con alcuni limiti legati alla transizione da un linguaggio ad un altro e alla location che è stata scelta. Partiamo dalla sala: l’evoluzione post-moderna del teatro di narrazione sviluppata da Buffa segna i passo in un teatro grande e dispersivo come il San Carlo, patria della tradizione lirica e sinfonica della cultura napoletana. Le parole di Buffa si perdono, i suoi allunghi retorici hanno difficoltà ad arrivare in platea, lo sforzo del suo fiato nell’affrontare due ore di spettacolo non riesce a sviluppare una direzione forte per folgorare il pubblico. Tra l’interprete e gli spettatori, penalizzati anche dall’orario della prima che è iniziata quasi alle 23.30, c’è anche l’enorme buca dell’orchestra. Il suo teatro di narrazione stride davanti a queste distanze.

La difficoltà dello spazio si integra, o forse è ferocemente enfatizzata da alcuni problemi di linguaggio: senza primi piani, stacchi veloci, e una grande abilità televisiva nel montaggio, il suo racconto resta distante, meno avvincente e un po’ forzato. Non a caso la parte migliore dello spettacolo, quella più riuscita, è quella in cui Buffa supera la buca e si avvicina al pubblico per raccontare la storia di Jesse Owens, riuscendo in quel caso a creare le condizioni del suo linguaggio teatrale e riuscendo a non farci pensare a come quella narrazione l’avrebbe resa in televisione. Perché era ottimo teatro.

Roberto D’Avascio

 

Share the Post:

Leggi anche