Vivere nel migliore dei modi possibili: “Candide”.

Il criptico e illuminante testo di Mark Ravenhill ispirato all’opera di Voltaire va in scena con la regia di Fabrizio Arcuri con uno spettacolo tragico quanto ironico e soprattutto politicamente impegnato.

 

L’opera “proibita” dalla chiesa e più significativa di Voltaire, “Candide”, fu la reazione al terrificante terremoto di Lisbona del 1775 che ha mietuto incolpevoli vittime, risposta indignata all’idea secondo cui l’evento fosse il disegno divino per il bene dell’umanità.

 

Candide era un lucido e cinico sguardo sul presente che aveva costretto l’autore come il suo protagonista ad affrontare sventure e persecuzioni e ad accettarle per un fine superiore. La critica ironica di Voltaire ha come suo bersaglio principale la filosofia Leibniziana incentrata sulla pretesa di vivere nel migliore dei modi possibili.

 

L’opera di Voltaire, che ha ispirato il compositore Bernestein ed è più volte citata da celebri autori post-illuministici fino a oggi, viene riscritta dal drammaturgo contemporaneo ed emergente Ravenhill che si interroga su quale sarà il futuro possibile di una società impaurita dal terremoto culturale, ideologico e politico che ha messo in crisi l’identità dell’Occidente, l’idea di rappresentanza e di sviluppo.

 

L’opera è divisa in cinque atti. Il primo è ambientato nel Settecento. Candide viene intrattenuto da una contessa che invano prova a mettere in scena uno spettacolo a corte sulle sue gesta per distrarlo dalla disperata ricerca dell’amata Cunegonda. Il secondo atto è ambientato in un presunto presente, in un albergo, e il pensiero di Candide è presente nella giovane donna Sophie che, appena diciottenne, travolta da un terremoto emotivo, mentre viene festeggiata dalla sua famiglia al completo, decide di mettere fine a tutto. Il terzo atto è ambientato alcuni anni dopo quella tragica notte: la madre di Sophie è “candidamente” intenta a rappresentare cinematograficamente la paradossale speranza di un futuro possibile e migliore nonostante la tragedia familiare appena vissuta. Nel quarto atto ritorniamo al viaggio di Candido che giunge a Eldorado, un luogo pre-civile dove tutto è in pace e semplice ma da cui il nostro protagonista fugge. Nel quinto atto, collocato in un futuro indefinibile, l’ottimismo regna sovrano su tutti: su Sarah, sulla madre scrittrice, su Candide e su Cunegonda che si illudono di essere ancora vivi per sfuggire a qualsiasi idea di finitudine umana

Il test di Ravenhill mantiene tutta la carica critica ed esplosiva di Voltaire sulla società, la religione e la politica. È un testo difficile quanto utile: un’amara riflessione sulla contemporaneità travolta da un terremoto che è la crisi delle ideologie. Purtroppo la rappresentazione, ispirata al teatro nel teatro shakespeariano, tramuta un testo di per sé difficile in un’opera rivolta a un pubblico elitario, preparato e intellettuale, rimanendo così incomprensibile per molti.

E allora come si può pensare di influire e invogliare un pubblico plasmato e appiattito dai media a interrogarsi sulla crisi ideologica che ha travolto l’Occidente?

È questo che ci fa riflettere di più in realtà: il completo scollamento che si è generato tra chi la società la racconta e chi invece la società la vive e subisce. Questo spettacolo seppur nobile e ben messo in scena non arriva al pubblico reale cui dovrebbe rivolgersi, finendo per tradire ingenuamente il suo vero intento.

 

L’impianto scenografico è imponente e accattivante ma mantiene tutte l’intellettualità dell’opera. Alla rappresentazione si alternano riprese audiovisive e musiche allusive che, per lo più, alimentano confusione nel pubblico già intento a comprendere un testo criptico. La rappresentazione rimasta troppo fedele al testo ha l’unico pregio di mantenere l’ironia originaria dell’opera e a tratti fa sorridere ma fa riflettere molto meno.

 

L’interpretazione seppur generosa degli attori, tra cui Filippo Nigro e la partecipazione speciale di Luciano Virgilio, non convince. Gli attori, investiti dell’arduo compito di interpretare più personaggi senza tempo, sono sottotono, soprattutto Federica Zacchia nei ruoli cruciali di Sophie, prima, e di Cunegonde, poi.

 

Fortuna che i repentini cambi di scena e la scelta musicale indovinata e arrangiata dal vivo da H.E.R. siano a tratti un sollievo e attenuino la tensione. La regia non riesce mai a semplificare e a farci entrare drammaticamente nel testo, se non invano nel finale dopo circa due ore di spettacolo senza pausa.

 

È un’opera che arriverà e arricchirà i soli intellettuali impegnati che forse sono già coscienti, vigili e accorti su quanto accade tutt’oggi ma inermi a incidere sul pensiero di massa. Una massa plasmata dalla superficie, dalle apparenze e dalla ricerca spasmodica di leggerezza proprio per non pensare a un futuro possibile. È una generazione inconsapevolmente già assuefatta e disincantata.

Roma, teatro Argentina, 4 Marzo 2016

Vittorio Sacco

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