Una storia noiosa diviene suggestivo spettacolo teatrale

Il lungo, splendido, non molto conosciuto racconto di Čechov sviluppa importanti domande e riflessioni sul senso della vita, sui rapporti umani, sulla morte.

Mentre la produzione teatrale di Čechov fa parte ormai di un comune patrimonio culturale – almeno per quanto attiene ai capolavori scritti negli ultimi anni – non altrettanto si può dire della smisurata produzione in prosa.

Negli anni Cinquanta Alfredo Polledro tradusse da par suo, e pubblicò nella vecchia BUR, i duecentocinquanta racconti (alcuni veri e propri romanzi brevi) che costituivano il corpus della produzione riconosciuta da Čechov: ma ne esistono almeno altri quattrocento, per lo più firmati con il nom de plume giovanile, Antoša Čechonte: spesso poco più che barzellette, credo mai tradotti in italiano.

Ma anche di quell’importante corpus, la conoscenza non è molto diffusa. Alcuni racconti, come La signora col cagnolino, hanno avuto trasposizioni teatrali o cinematografiche. Ma quanti conoscono, per esempio, lo struggente Violino di Rothschild, messo in musica dallo sfortunato compositore Veniamin Iosifovič Flejšman, morto in guerra non ancora trentenne nel ’41? E quanti hanno notato che il film C’era una volta in Anatolia, del turco Nuri Bilge Ceylan, è ripreso in modo trasparente dal racconto Il giudice istruttore, e da un momento di Bellezze, ambedue usciti dalla penna di Anton Pavlovič?

 Particolarmente meritoria, quindi, la messinscena di uno dei più sorprendenti racconti di Anton Pavlovič, dal titolo non certo stuzzicante: Una storia noiosa (Dalle memorie di un vecchio), al punto da indurre la produzione, con una scelta forse eccessivamente prudente, a modificarlo nella più appetibile forma I talenti della vita.

L’operazione nasce dalla volontà e dalle professionalità congiunte di Fausto Malcovati, che ne ha curato la versione drammaturgica; del regista Fabrizio Visconti, da tempo coinvolto con passione nel mondo čechoviano; di Massimo Loreto, attore di notevole cultura e finezza.

Un buon motivo per far diventare teatro un racconto scritto a ventinove anni, che mostra la capacità di Čechov di penetrare la psicologia di un anziano, di affrontare temi come la decadenza e la stanchezza di un rapporto coniugale; la morte, come traguardo ormai prossimo; il bilancio di una vita, apparentemente segnata dal successo accademico, ma di fatto appassita e inutile. Ma fra le pieghe del testo scopriamo sorprendenti anticipazioni di temi, di situazioni, addirittura di personaggi che ritroviamo nei successivi lavori teatrali. Quanto della tronfia vanagloria del professor Serebrjakov, di Zio Vanja, è già presente, in forma di dolente chiaroscuro, nel protagonista della Storia noiosa? E come non riconoscere in Katja, la figlia adottiva, la medesima irrequietezza, la frustrata passione teatrale, addirittura le vicende personali della Nina Zarečnaja del GabbianoDue figure peraltro ispirate a personaggi reali: Aleksandr Ivanovič Babuchin, professore di anatomia che Anton Pavlovič ha conosciuto durante i suoi studi di medicina all’università di Mosca; Lika Mizinova, un complicato amore dello scrittore in quegli anni.

La narrazione in prima persona del professore emerito Nikolaj Stepanovič viene affidata alla raffinatezza e sensibilità attorale di Massimo Loreto, cui fa da splendido contraltare la Katja di Camilla Violante Scheller, attrice dalla bellezza severa, non vistosa, che riesce a tessere un efficace contrappunto col protagonista, esaltando un altro tema sotteso al racconto (spesso affiorante nel teatro čechoviano, e oggi di inquietante attualità): la difficoltà di comunicazione fra le generazioni.

La drammaturgia di Malcovati elimina – giustamente – diversi personaggi secondari, semplifica i luoghi dell’azione, senza però sacrificare certe preziose notazioni paesistiche, così accurate in Čechov; e tutto ciò che è davvero importante viene conservato.

Fabrizio Visconti dirige gli attori (che spostano a vista gli elementi scenici, per suggerire i cambi di ambiente) con mano leggera, lasciando spazio alla suggestione della nuda parola, e alla penetrante capacità di elaborazione espressiva di Massimo Loreto e Camilla Violante Scheller.

Un’unica, sommessa riserva: lo sguardo penetrante del dottor Čechov sulla morte non ha bisogno di elementi simbolici (la valigia dell’ultima scena) per arrivare a segno.

Ma si tratta di un peccato veniale: l’operazione artistica e culturale complessiva è di grande livello, e offre un’occasione preziosa per esplorare zone non a tutti note dell’universo di Anton Pavlovič.

Claudio Facchinelli

Share the Post:

Leggi anche