Steno, Carlo ed Enrico

Diversi giorni fa ho avuto il piacere e la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con il grande Enrico Vanzina. Ci siamo visti nel suo ufficio di Roma, per parlare dell’uscita del suo ultimo romanzo giallo, Il cadavere del canal grande, e per ripercorrere insieme alcuni passi salienti della sua magistrale carriera. Enrico, sceneggiatore e produttore cinematografico, immerso nel mare magnum del cinema italiano fin da piccolo (è figlio del regista Stefano Vanzina, noto ai più come Steno) ha iniziato a inanellare un successo dopo l’altro a partire dagli anni settanta. Grazie alle sue commedie, realizzate insieme al compianto fratello Carlo, è da sempre considerato uno degli autori tra i più amati dal pubblico italiano.

Enrico cosa rappresenta per te il cinema?

Per me la parola cinema assume il sinonimo di destino. Pensa che da piccolo non volevo dedicarmi a questa professione, volevo votarmi unicamente alla scrittura e al pianoforte. Poi ho capito da una serie di segnali che quello sarebbe stato il mio mondo. Ho sempre pensato che la nostra famiglia avesse questo linguaggio nel sangue e che io non potessi sottrarmi al richiamo di questa meravigliosa sirena. Carlo da giovanissimo, a diciassette anni, ha iniziato a fare l’aiuto di Monicelli, in pellicole come L’armata Brancaleone, Amici miei.

Forse siamo stati scelti da qualcuno in alto per portare un po’ di allegria e per fare il cinema popolare. Nel corso della mia vita, però, oltre che a scrivere per il cinema sono anche diventato giornalista, prima per Il corriere della sera e ora anche per Il Messaggero. Poi ho iniziato a scrivere romanzi e negli ultimi anni mi sono appassionato alla fotografia e ho organizzato diverse mostre. La commistione tra musica, immagini e parole, ossia il cinema, era ciò che volevo fare nella mia vita.

Quale sceneggiatura non tua ti sarebbe piaciuto scrivere?

Ce ne sono tantissime. Ti potrei dire Sabrina. Questa pellicola incarna, a mio avviso, il vero senso della commedia. E poi mi sarebbe piaciuto scrivere C’eravamo tanto amati.

Esiste secondo te il blocco dello scrittore?

Sfatiamo un mito, il blocco dello scrittore esiste ed è estremamente comune. Io però appartengo alla scuola di pensiero di Balzac che affermava di non essere in grado di scrivere nulla se non aveva in mano un contratto. Bisogna leggere e scrivere ogni giorno, per mantenere vivo l’allenamento. La scrittura è come la musica, va esercitata di continuo. Quando hai un contratto ti metti alla prova con un argomento che spesso non ti appartiene, o su un aspetto a cui non avevi pensato.

Quale è stata la pellicola più difficile da realizzare e perché?

La sceneggiatura più difficile che ho dovuto realizzare è stata Febbre da cavallo, perché era la prima che facevo insieme a mio padre e avvertivo il peso del suo giudizio. Il mondo delle corse e dei cavalli era un ambiente che conoscevo molto bene, infatti il film è davvero molto preciso. Ero alle prime armi e i meccanismi della commedia non li maneggiavo ancora con destrezza, ma mi impegnai tantissimo.

Come cambierà il cinema con l’ulteriore rafforzarsi delle piattaforme streaming?

Il cinema non cambierà mai, si farà sempre nello stesso modo. In questo momento c’è una rivoluzione tecnologica e ostacolare la tecnologia rappresenta sempre un errore. Ricordo ancora quando mio padre tornò a casa una sera e disse che la televisione avrebbe ucciso il cinema. Invece la tv è stato un volano per rilanciare il cinema. Con il tempo queste rivoluzioni diventano dei meri elettrodomestici. I cinema devono attrezzarsi per diventare qualcosa di speciale per differenziarsi dalla tecnologia che abbiamo nelle nostre case. Ora con una maggiore possibilità di scelta bisogna scrivere i film immaginandoci il motivo per il quale un signore debba uscire di casa e andare in una sala. Si deve prestare una maggiore attenzione alla qualità dei film.

Sei anche un appassionato di musica, quali sono i tuoi cantanti preferiti e la canzone della tua vita?

Domanda molto difficile, anche perché a me la musica piace tutta. Amo l’opera, la classica, il pop, il jazz. Secondo me stiamo vivendo un momento di grande involuzione. Così come nel cinema, anche nella musica a me piace l’aspetto collettivo. Ognuno è specializzato in un ruolo. Oggi i ragazzi fanno tutto da soli in ambito musicale, sono un po’ allo sbaraglio. Mi attirano le canzoni che hanno una storia, un bell’arrangiamento, realizzato non per forza dallo stesso autore della canzone.  E soprattutto la musica diventa sublime quando c’è lo stile: ad esempio tu ascolti due note di Morricone e subito capisci che è un suo pezzo.

Ti sei approcciato alla regia relativamente tardi solo nel 2020 con Lockdown all’italiana, come mai questa scelta?

Con Carlo spesso ci siamo divisi i ruoli. Alcune scene le giravo io e a volte anche del montaggio me ne occupavo io. Ho scelto di dedicarmi alla sceneggiatura, perché la reputo la parte centrale di un film. Credo, comunque, di essermi impegnato in tutte le fasi realizzative di un film, nessuna esclusa.

C’è un attore con cui hai lavorato che non ha riscosso il successo che secondo te meritava?

Chi ha talento alla fine riesce. Alcuni dei cosiddetti caratteristi, che poi sono la forza della commedia, soprattutto italiana, sono spesso più bravi dei protagonisti. Mi viene in mente Carotenuto, che meritava dei film incentrati su di lui. Carlo Buccirosso è il più bravo attore con cui abbia lavorato. Spesso alcuni di questi attori non hanno avuto la fortuna di essere valorizzati come avrebbero meritato.

Come mai non hai proseguito l’esperienza teatrale?

Perché sono stato sfortunato. All’inizio della mia carriera ho fatto una commedia Bambini cattivi, messa in scena da Giuseppe Patroni Griffi. Con Garinei avrei dovuto fare Sapore di mare a teatro, ma con la morte di Pietro il progetto naufragò. Ho fatto una specie di adattamento di Febbre da cavallo per il Sistina, però non mi è piaciuto. Per una serie di sliding doors non ci sono entrato nel mondo del teatro. Forse lo farò un giorno.

In un’intervista per Vanity Fair hai affermato «L’umorismo ci salverà». Ti chiedo allora se hai qualche rimpianto?

Assolutamente no. Avendo avuto la fortuna di fare più di centoventi film, nella mia vita ho potuto fare tutto quello che volevo. Forse l’unico rimpianto, lavorativamente parlando, è quello che non siamo riusciti con Carlo a riproporre il filone degli spaghetti western.

Il nuovo romanzo di Carlo Vanzina.

Hai un libro in uscita, ce ne vuoi parlare?

A me piace molto il genere noir-giallo. Ora, dopo avere raccontato storie ambientate a Roma e Milano, con Il cadavere del Canal Grande chiudo la trilogia dedicata alle città italiane. La vicenda è collocata in una Venezia settecentesca tra canali e atmosfere brumose e inquiete, con sullo sfondo gli affreschi di Giambattista Tiepolo e le incursioni di Giacomo Casanova. Il mio scopo era quello di scrivere il romanzo più divertente dell’anno. È un mix tra I tre moschettieri, Le relazioni pericolose, La locandiera di Goldoni, condito con una visione alla Tarantino. Ho cercato di proporre una ventata di letteratura popolare all’interno di una costruzione abbastanza colta.

Valerio Molinaro

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