Si è svolta a Vicenza la V edizione di “Sguardi”, festa del teatro contemporaneo

splash_screenSguardi non è un festival, ma una festa/vetrina, finanziata sostanzialmente dal Comune di Vicenza e dalla Regione, finalizzata a dare visibilità alle variegate realtà teatrali che operano nel Veneto. La quinta edizione, tenutasi quest’anno dal 10 al 13 settembre, accanto al PPTV (Produttori Professionali Teatrali Veneti), organizzatore storico, vedeva anche A.R.CODdanza (Associazione Regionale delle Compagnie di Danza) e, di conseguenza, per la prima volta l’arte cara a Tersicore vi era adeguatamente rappresentata.
In apertura, un dibattito sullo stato dell’arte, coordinato da Andrea Porcheddu e imperniato sull’analisi del decreto ministeriale che rinnova la normativa di erogazione del F.U.S. (pubblicato non casualmente – notavano i più maliziosi – durante i sonnolenti, distratti giorni della canicola): un documento che alla luce della disincantata analisi di Francesco D’Agostino, presidente dell’A.N.C.R.I.T. – AGIS (Associazione Nazionale delle Compagnie e Residenze di Innovazione Teatrale), si rivelava, ancora una volta, un’opportunità sostanzialmente mancata.
All’interno di un ventaglio di oltre 25 spettacoli, proposti in un intervallo temporale di poco più di 72 ore, quelli ascrivibili alla categoria del teatro ragazzi inducono la perenne domanda: quali sono le forme più adeguate da proporre all’infanzia e alla gioventù?
Ho un punto fra le mani, di Tam Teatromusica, ispirato alla pittura di Kandinskij, con una sapiente interazione fra performer e creazione digitale dal vivo, sembra assolvere ad una lodevole funzione di educazione estetica rivolta ai più piccoli. Più difficile è capire la ragion d’essere di una Bella Addormentata (Rosso Teatro e Atelier Teatro Danza), ove la sovrapposizione di orpelli registici, ammiccamenti, inserimenti coreutici, nulla aggiunge – anzi, disturba – lo schema secolare della fiaba. Nello stesso segno, e con ben maggior impegno produttivo, Odette e il lago dei cigni, di Theama Teatro. Qui l’oscura, inquietante vicenda resa immortale da Čajkovskij viene deformata da facili strizzate d’occhio al pubblico, espedienti scenotecnici (luci stroboscopiche, lampada di Wood); una scenografia a base di specchi, manovrata a vista, riflette inopinatamente la cabina di regia mentre, complice l’inconsapevole Pëtr Il’ič, risuona a tutto volume la musica del balletto omonimo.
Circo Soufflè, di Pantakin, è uno spiritoso, pirotecnico pastiche, alla maniera degli artisti di strada d’un tempo. Vi si intrecciano musiche dal vivo, numeri di acrobazia, beghe familiari e, in più, una vera cena, servita al pubblico seduto ai tavoli: una formula che, se realizzata – come in questo caso – con fantasia ed intelligenza, si rivela valida per tutte le età.
L’ampio spazio riservato alla danza ha indotto qualche sconcerto fra gli operatori – e anche i recensori – presenti, spesso ignari della grammatica e della sintassi di quel linguaggio, in apparenza privo di mediazioni intellettualistiche ma, di fatto, di non sempre facile lettura.
In alcune proposte che, da spettatore ingenuo, non specialista, definirei più astratte (Mosaico, di RBR Dance Company, Presto Lento Presto, di Fabula Saltica), si apprezzava il rigore e l’esattezza del movimento, la scultorea armonia dei corpi. Ma ben più coinvolgenti risultavano le proposte ove il linguaggio mimico e coreutico era al servizio di una fabula, ancorché sfumata e polisemica: il tenero, esilarante Camping Paradise di Ersiliadanza, quasi una trasposizione de Le vacanze di Monsier Hulot; o Naveneva, di Naturalis Labor, una serie di fantastici quadri marini, supportati dalle intriganti, apparentemente precarie scenografie di Antonio Panzuto. Ma anche sul terreno di una più esplicita contaminazione con altri generi, alcuni progetti, pur generosi, apparivano meno riusciti, come Made in Italy (a parte il commovente, efficacissimo quadro del Pescespada, scandito da spasmi quasi erotici, e dalla voce appassionata di Domenico Modugno); o La Musa dei Navigli, di Khorakhanè Danza, dove l’illustrazione della vita di Alda Merini si risolveva in inserimenti banalmente didattici, privi di spessore teatrale.
La rassegna era punteggiata dai “Colpi d’occhio”, sorta di trailer di spettacoli di maggior estensione, o anche lavori compiuti, ma di breve durata: una proposta stimolante, che sembrava voler infrangere la regola – non scritta, ma tassativa – di una durata minima del prodotto teatrale. In alcuni casi, veri gioielli, come La cinta che envuelve una bomba, su Frida Kalo, interpretata con piglio energico da Patricia Zanco, col contrappunto coreutico-figurativo di Daniela Mattiuzzi, fascinoso, elegante alter ego della tormentata artista messicana. Non meno suggestiva l’essenziale Annette, di Francesca Raineri: venti minuti di rigorosa performance mimica, con espliciti, trasparenti riferimenti alle sculture di Alberto Giacometti, ai maestri del surrealismo, alla pittura metafisica, addirittura della “donna seduta” dell’argentino Copi. Coinvolgente il frammento 9841/Rukeli, prodotto da Farmacia Zoo:E’, che evocava la figura di Johann Trollmann, il pugile sinti che si trovò a contrastare, con eroica determinazione, il sinistro razzismo nazista. Apprezzabile anche Parliamo d’altro, con Flora Sarrubbo e Vittoria Barrella: un confronto conflittuale tra madre e figlia, ove il registro realistico del dialogo viene spezzato da momenti di fermo immagine, come sgorbi nervosi sulla pagina, fino al fulminante finale. E ancora, nella bella resa drammaturgica ricavata da Isabella Caserta e Francesco Laruffa su testi poetici di Guido Catalano, il brillante, spiritoso Che ne dici di venirmi a salvare?, con vaghe assonanze con la prosa di Goffredo Parise e Roland Barthes.
Presenti anche alcune proposte di teatro di figura. L’atlante delle città, una esplorazione di luoghi improbabili, a metà strada fra Italo Calvino e Antoine de Saint-Exupéry, di Antonio Panzuto che, con le sue machinae perennemente instabili, conquistava la platea di grandi e piccoli (un fantolino, incuriosito, invadeva ripetutamente lo spazio scenico). Anche il pulito minimalismo naïf di Gigio Brunello, con Lumi dall’alto, coglieva nel segno. Qualche perplessità sollevava invece Tomato Soap di Manimotò e Questa Nave, non solo per l’ambizione dell’assunto (la violenza di genere), che mal si coniugava con l’incongrua mostruosità dei due pupazzi che ne erano interpreti, ma anche per una manipolazione che raramente riusciva a conferire alle figure quel soffio di vita, che può sortire anche da un’animazione a vista, quando dietro il trucco palesato si rivela, nella sua fascinosa ambiguità, l’anima degli oggetti.
A conclusione di un resoconto, di necessità incompleto, merita almeno un accenno Un altro sguardo, un progetto de La Piccionaia: una sorta di lezione spettacolo, una visita guidata da Carlo Presotto, in abito popolaresco del Cinquecento, per fare scoprire agli spettatori, con l’aiuto di alcuni video e di un audio in cuffia, il fascino segreto della Basilica Palladiana.
Un’ultima osservazione: la scoperta di quanti spazi teatrali, bene attrezzati, vuoi pubblici, vuoi privati, esistono a Vicenza. Di questi tempi, un dato consolante.

Claudio Facchinelli

Share the Post:

Leggi anche