Se Penelope balla il tango
della sua liberazione

L’attesa come luogo della riflessione, della rivendicazione, della possibile ridefinizione dei rapporti e della valutazione dei rapporti: questo il senso dell’attesa portato in scena con precisione e grinta da Antonella Valitutti e Marika Mancini in Penelope Tango, pièce diretta con evidente incisività dalla brava Licia Amarante.
Non Penelope ma la sua attesa è la vera protagonista della messinscena, un’attesa che non è né la dolorosa conseguenza di un abbandono né l’ineluttabile manifestazione della fedeltà coniugale femminile, quanto il sorprendente punto di forza di un prototipo muliebre scaltro e volitivo, segreto laboratorio esistenziale di una donna che vuole portare avanti il proprio progetto di vita anche senza Ulisse, senza l’uomo-eroe di turno a cui il Mito la vorrebbe vincolare per sempre.
Anzi, è proprio la lontananza di Ulisse, che consente a questa Penelope contemporanea di rivitalizzare i propri desideri, lungi da qualsiasi idealizzazione e qualsiasi soggezione alla vulgata “condotta” del Mito.
Una vera e propria “ribellione” drammaturgica all’archetipo omerico, quello proposto da Licia Amarante, una “ribellione” che sembra suggerire alle donne di scuotersi dall’inazione che spesso segue un abbandono: Penelope può vivere e può realizzarsi anche a prescindere da Ulisse anzi, solo prescindendo da Ulisse, può giungere a una maggiore e più chiara consapevolezza delle proprie ambizioni, del proprio piacere e delle proprie esigenze.
E la tela? Cosa accade alla tela che Penelope tesse e disfa ogni giorno, nell’attesa dell’amato marito? Su questo Licia Amarante non sembra avere dubbi: la tela è lo strumento attraverso cui da sempre il Mito intrappola Penelope e non le dà respiro, dietro la grande menzogna del sudario di Laerte scorgiamo così la gabbia di corde e di nodi che per secoli ha paralizzato e compromesso il corpo e la coscienza delle donne. Ovviamente, prima che Penelope iniziasse a ballare il tango della sua liberazione.

Claudio Finelli

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