“Run, baby run”, la mater dolorosa
di Titti Nuzzolese lascia il segno

 

Prendendo in prestito il titolo del successo di Sheryl Crow, Mirko Di Martino scrive e dirige “Run, baby run”, di scena al Teatro Tram, affidando a Titti Nuzzolese un monologo denso e tesissimo. Occasione propizia, per la versatile attrice partenopea, per utilizzare tutte le sfumature di un repertorio di rara versatilità. Dolce, ferita, spietata, inquieta, risoluta, Marta, tossicodipendente come il suo compagno, lotta per non perdere la figlia neonata, portandola con sè in fuga sull’autostrada, rimbalzando tra figure femminili ora ostili (la nonna, la madre), ora vittime (l’automobilista che la soccorre dopo un incidente e alla quale ruberà la vettura per continuare a sfuggire alla cattura). Fino all’orgoglioso finale. Di Martino dipana il dramma col consueto ritmo serrato, scandito dalla proiezione di frasi-simbolo su una scenografia essenziale ma molto funzionale, dimostrando una volta ancora di essere un abile cesellatore di personaggi femminili, grotteschi o tormentati che siano, seminando qua e là radi elementi autobiografici. La duttile disponibilità di una signora attrice come la Nuzzolese trova il suo acme in un finale dal forte gusto cinematografico, dove le rutilanti immagini descritte in precedenza si fissano in un drammatico e fiero sguardo nel vuoto (ma in realtà rivolto dritto al cuore di chi guarda) che non si dimentica.

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