Possiamo essere eroi, solo per un giorno

Ieri sera ho avuto la fortuna di rivedere un film sorprendente, uno di quei film che fanno pensare, strappandoti una risata di cuore: Jojo Rabbit! Irriverente, drammatico e satirico, racconta con ironia il Terzo Reich, una delle pagine storiche più buie e tristi del genere umano.

La pellicola narra le vicende di Jojo, un giovanissimo figlio della Germania nazista, fedele al partito e a Hitler, al punto di averlo al suo fianco come amico immaginario. All’inizio del film il ragazzino subendo un incidente, disilluso, abbandona l’dea di partire al fronte come soldato.

Dopo aver scoperto che la madre Rosie (magistralmente interpretata da Scarlett Johansson), unico personaggio vero dotato di amore e empatia per la vita umana, nasconde in casa Elsa, una ragazza ebrea, le sue convinzioni entrano in crisi fino a far vacillare il suo credo di idee farlocche.

La satira è uno strumento con cui il regista sottolinea il crescente spaesamento interiore di Jojo e l’altrettanto crescente difficoltà di trovare nella realtà la giustificazione ad un dogma inculcato. Proprio il contatto con “il nemico” consente al piccolo esponente della gioventù hitleriana di crescere e di diventare un uomo; infatti Elsa, la bambina in carne ed ossa, sostituisce via via, attraverso l’esperienza reale e la vicinanza, il suo amico immaginario, fino a rubare a Hitler completamente la scena.

Il Fuher di Jojo Rabbit (interpretato dallo stesso regista Taika Waititi), definito come un patetico ometto che non riesce nemmeno a farsi crescere i baffi, è un amico burlone e un po’ goffo, una sorta di Homer Simpson tedesco, ridicolizzato in tutto il film tra un “Heil Hitler” e l’altro.

Il finale colmo di pathos innesta con delicatezza la canzone Heroes di David Bowie, accompagnata da un accenno di ballo, che dà il colpo di grazia al nazismo e inneggia alla vita. Con Jojo Rabbit Waititi racconta uno spaccato di storia, una commedia a tratti spassosa, emozionante e vera.

In alcune sequenze però il lato satirico della vicenda, a mio avviso, perde di mordente e appiattisce il ritmo narrativo, divenendo troppo didascalico e retorico. I due linguaggi, quello più ironico e quello più drammatico, non sempre sono ben amalgamati, e solo nel climax finale il giusto compromesso viene raggiunto, proprio quando emerge una sensazione di ritrovata speranza.

Jojo Rabbit riesce pienamente nel suo intento catartico: sconfiggere il male con una risata.
Bisogna ridere prima di essere felici, per non rischiare di morire senza avere riso.
(Jean de La Bruyère)

 

Valerio Molinaro

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