“Mozart e Salieri” il breve testo di un grande autore che diventa vero spettacolo

prev33Aleksandr Sergeevič Puškin non ha scritto molto per il teatro. Oltre al giovanile, bellissimo Boris Godunov – ben raramente rappresentato, più noto per l’opera lirica che Musorgskij ne ricavò una cinquantina di anni dopo – ci ha lasciato una manciata di testi, minori per estensione, spesso semplici schizzi drammaturgici; anch’essi, come la maggio parte delle sue opere letterarie, messi in musica dai compositori russi dell’800, da Glinka, a Dargomižkij, a Rimskij-Korsakov, a Čajkovskij, che hanno saccheggiato l’intero corpus della sua produzione.

Quattro delle cosiddette “piccole tragedie” sono riferite a vizi capitali: la lussuria, l’avarizia, l’accidia, l’invidia. Per quest’ultima, Puškin si ispira a un aneddoto che riferisce di un Salieri, roso dell’invidia per la bellezza della musica di Mozart, che esce furioso, dopo aver fischiato sonoramente, dal teatro dove si rappresenta il Don Giovanni. Da qui, desume che quel sentimento possa aver addirittura indotto il compositore italiano ad avvelenare il suo geniale coevo: un’ipotesi sostenuta da alcuni giornali tedeschi che riportavano di una confessione che sarebbe stata resa da Salieri sul letto di morte. Ipotesi, questa, storicamente poco plausibile, ma raccolta e sviluppata da Peter Shaffer, e poi da Miloš Forman, nello spettacolo Amadeus e nel film omonimo.

prev75Un talentoso gruppo di artisti, coordinati dal giovane ma già affermato regista Alberto Oliva, hanno accettato la sfida di cui sopra, con un felice gioco di squadra. Si trattava di rimpolpare quel testo con altri materiali. Il successo e la diffusione del film di Forman era una trappola: c’era il rischio di farne una brutta copia, anche se alcune aggiunte di Shaffer alla fabula originale potevano essere accolte. Ma Oliva, lavorando a quattro mani con Mino Manni ha voluto andare più in profondità. La sua familiarità con Dostoevskij gli ha consentito di individuare, nella leggenda del Grande inquisitore, dai Karamazov, un’assonanza con lo sconcerto che Mozart poteva suscitare fra i suoi contemporanei; ugualmente, echi della parabola puškiniana potevano ritrovarsi anche nel Soccombente, di Thomas Bernhard: frammenti dei due scrittori sono stati quindi incastonato nel testo.

Per il personaggio di Mozart, il trasgressivo, psicotico profilo fornitoci da Forman era un modello dal quale non era facile prendere le distanze: Davide Lorenzo Palla c’è riuscito, ritraendo il genio di Salisburgo, affetto – come sembra assodato – dalla sindrome di Asperger, in tutta la sua vulnerabile tenerezza, esaltando la gioia infantile con cui sembra giocare con la sua arte. E qui è da citare una felicissima invenzione dalla scenografa, Francesca Barattini, di cinque pentagrammi verticali che, ora evidenziati, ora nascosti da luci a perpendicolo, divengono elementi di scena drammaturgicamente rilevanti. Ad essi Mozart attacca materialmente le note, le accarezza in una sorta di danza spiritata, con un’adesione quasi carnale alla sua musica.

prev94Salieri offriva forse minori appigli per la costruzione del personaggio, ma Alberto Oliva e Mino Manni, che ne è anche l’interprete, non si sono risparmiati. Oltre ad accogliere l’ipotesi – presente in Amadeus – che identifica nell’italiano anche il misterioso committente del Requiem, e ad affidargli i frammenti tratti da Dostoevskij e Bernhard, ne fanno un sinistro genio del male, un luciferino Signore della Morte. La mensa, alla quale l’inconsapevole Mozart berrà il veleno, ha inizialmente l’aspetto di un altare, sul quale Salieri officia una sorta di una messa nera, un inquietante, ieratico rituale da società segreta.

E ciò si collega a un’altra felice intuizione drammaturgica del lavoro: l’adesione di Mozart alla massoneria offe il destro a Ivan Bert, autore della partitura sonora, per un’operazione di notevole originalità e suggestione. All’iniziale, ossessivo conturbante tic-tac di un metronomo in scena seguono brani dal Requiem e dal Flauto Magico: ora in originale, nelle classiche edizioni su vinile; ora ripresi e rielaborati con arditi e fascinosi campionamenti, ora riproposti dai suoni degli strumenti di lavoro del muratore, propri della simbologia massonica (“franchi muratori” era l’antica forma con cui si designavano). Un continuum sonoro di grande effetto emotivo, che avvolge e segna l’intero spettacolo.

In questo modo, il meritorio lavoro di squadra del giovane gruppo (da citare ancora l’intrigante scelta dei costumi di Marco Ferrara: dallo sbracamento dello scapestrato monello Mozart, al solenne, liturgico aplomb del severo Salieri), vince una sfida ardita e, pur attraverso la mediazione di una lettura personale, ma non incongrua, consente al pubblico di venire a contatto con uno dei massimi scrittori russi, esattamente coevo di Leopardi ma, da noi, incomprensibilmente poco frequentato.

 Claudio Facchinelli

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