Mittelfest, il teatro incontra la poesia

Quarto appuntamento con il Mittelfest ed il “diario di bordo” del nostro inviato Claudio Facchinelli

7026988903_aea24eaf59_z-940x480Cividale, 25 Luglio 2014 – Con “Mentre le granate cantavano orribilmente” (nella foto) visto ieri, mercoledì, le voci dalla trincea erano quelle dei poeti che alla Grande Guerra avevano partecipato: giovani come Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, un D’Annunzio spoglio di retorica; ma anche Georg Trakl, Guillame Apollinaire, Wilfred Owen, morto a venticinque anni a pochi giorni dell’armistizio, i cui versi Benjamin Britten avrebbe inserito nel suo monumentale War Requiem. Un recital letterario in uno spazio nudo, al quale tuttavia il sobrio, efficace porgere di Emanuele Carucci Viterbi riusciva a dare rilevanza teatrale con lunghi, silenziosi sguardi che si posavano su una sedia vuota e illuminata, in fondo al palco: inquietante simbolo di assenza, di morte.
Di tutt’altro segno “Treno fermo a-Katzelmacher”, di Compagnia nO (Dance first, Think later). Il titolo è mutuato da un film di Fassbinder del ’69, ove il termine (letteralmente “fabbricante di mestoli”) è l’appellativo sprezzante attribuito agli immigrati, spesso italiani, greci, turchi. Il giovane gruppo riprende, rovesciandole, le tematiche del film: l’immigrato qui è un tedesco, approdato in un non meglio identificato paese del sud d’Italia; un non luogo ove non succede mai nulla, dove la vita è un treno fermo, e la presenza di quel diverso coagula le più scontate, banali dinamiche comportamentali (la seduzione, l’attrazione, la gelosia, il risentimento, il disprezzo). Un microcosmo di umanità giovanile ove domina una sorta di indolenza, di impotentia agendi (non compare neppure la violenza, consumata dietro le quinte): un’atmosfera, resa con efficacia attorale, che ricorda certo Pasolini, dietro il cui apparente disordine si individua una scrittura drammaturgica rigorosa. Lo spettacolo ha ottenuto una segnalazione speciale al premio Scenario 2013, ed è doveroso fornire un’ulteriore informazione. Le prove si sono svolte nell’ex Cinema teatro Volturno, già cinema porno, rinato per offrire uno spazio ad iniziative di rilevanza artistica. Nei giorni scorsi, il locale è stato sgombrato a forza dalla polizia, che ne ha distrutto le strutture che ne facevano uno spazio attrezzato. Un segnale non incoraggiante per chi vorrebbe promuovere una politica di sostegno alla cultura, e che invece, in questo caso, colpisce dei giovani di valore.
Dopo la raffinata suite “Questa libertà”, per pianoforte, percussioni e quartetto d’archi e voci recitanti, composto da Glauco Venier su testi di Pierluigi Cappello, la giornata si chiude con “Zlateh la capra”, una favola gentile di Isaak Bashevi Singer, proposta dal Centro Teatro Animazione di Gorizia, raccontata con una dolce, cantabile inflessione croata da Duska Kovacevic. Accanto a lei, una hanukkiah (il candelabro a nove braccia che gli ebrei accendono durante per la festa invernale delle luci) e, proiettati su uno schermo, i bei disegni di Maurice Sendak, americano di nascita, ma, anch’egli, di origine ebraica mitteleuropea.
La ricchezza delle proposte porta necessariamente a delle sovrapposizioni fra teatro, danza e musica, ma spesso anche nel medesimo ambito: oggi, giovedì 25, il recensore, costretto a una scelta difficile e sofferta, è indotto a rinunciare a un intrigante “Pinocchi”, prodotto dai toscani di Zaches Teatro in collaborazione col Teatro della Marionette di Ekaterimburg, dedicato al maestro Nikolaj Karpov, a favore del non meno promettente, “Trê Zovini’”, del CSS, per la regia di Massimo Somaglino.
Ispirato all’opera di Novella Cantarutti, scritto in un friulano ormai démodée (la lingua della sua nonna), lo spettacolo emana gli intensi afrori di una civiltà tramontata ma, secondo l’autrice, da rinnovellare. Obiettivo perseguito dalla drammaturgia dello stesso Somaglino, assieme a Carlo Tolazzi, con quadri diacronici affidati a figure diverse ma interconnesse, cui danno vita Chiara Benedetti, Sara Rainis, Aida Talliente. I costumi hanno un che di rustico, di primitivo: lasciano scoperte le schiene nude di quelle figure vigorose, use ai lavori della campagna, incarnate dalle tre attrici, le quali che ricostruiranno tuttavia una loro dimensione femminile, specie nella scena, tenerissima, in cui espongono la morbidezza delle loro mammelle, offerte a gara al fantasma di un bambino affinché ne succhi il latte. La ruvidezza e la dolcezza della lingua, il passaggio generazionale di una cultura matriarcale, la complicità femminile, che attraversano l’intero spettacolo gli conferiscono una suggestione fascinosa, che arriva con facilità anche allo scrivente, spettatore alloglotta.
È notte alta quando ripercorro le strade di Cividale, ormai deserte; sosto per l’ultimo spritz (quello vero, dei poveri: solo vino e acqua frizzante) al Navel – un locale fra pub e centro culturale e, prima di raggiungere la locanda Pomo d’Oro, attraverso la piazzetta ove una lapide affissa alla parete ricorda che, in quella casa, circa centotrenta ani fa è nato l’avvocato Vittorio Podrecca, creatore del Teatro dei Piccoli.

 Claudio Facchinelli

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