Mitologia e tragicità borghese in “Walkiria” al San Carlo

 

 

Wer meines Speeres/ Spitze fürchtet,/durchscreite das Feuer Nie!

Chi teme la punta/della mia lancia,/mai attraversi il fuoco!!

Sono le ultime parole pronunciate da Wotan nel mezzo delle vampe quando addita il monte ove è addormentata Brunilde, amata figlia, dalla quale si è dolorosamente separato sulle note del tema di Sigfried: illusione e profezia allo stesso tempo che s’innalza nel canto e nei corni; poi, tacendo oramai la voce, prorompe nei tromboni.

Per comprendere quale sia lo stato d’animo di delusione, corruccio e dolore nel quale versa il principale Dio del Pantheon nordico occorre, sia pure brevemente, riavvolgere il nastro per comprendere quale sia la poetica che sia alla base della seconda opera della tetralogia, “la più bella creatura mai scritta” come lo stesso Wagner scriveva nel 1856 all’amico italiano Antonio Pusinelli.

E che, per un’ironia della sorte, doveva essa stessa posta in un sonno ventennale fino al fatidico 1876 quando a Bayreuth il compositore poté finalmente sentirla: vent’anni di sonno amaro prima del risveglio glorioso.

Ebbene, proprio partendo dal materiale mitologico offerto dagli antichissimi Volsungasaga, Wagner presenta mediante i tratti del mito una narrazione atta a spiegare quegli eventi originari che hanno conferito al mondo la loro configurazione attuale.

In tal senso Walküre è un dramma tragico perché presenta una situazione dialettica i cui protagonisti sono intrappolati, per loro stessa colpa, in un groviglio di istanze morali contrapposte e tra loro non conciliabili.

Tragica è la circostanza in cui il personaggio affonda in una crisi non destinata ad alcuna composizione causata dalle proprie contraddizioni, ed ogni tentativo per poterne uscire si risolve in una maggiore radicalizzazione fino a giungere al riconoscimento di questa sconfitta e la libera accettazione, da parte dell’eroe, dell’annientamento quale vera fonte della purificazione morale che l’atmosfera tragica emana.

In tal senso Wotan è personaggio tragico per eccellenza: avendo divelto un ramo dal “frassino del mondo” egli si è formato una lancia sulla quale fonda la propria potenza, seppure condizionata, dall’esistenza dei patti (le rune) che regolano il mondo.

Wotan ne è divenuto il signore, ma a patto di garantire e difendere i “patti”.

Ma con un atto di violenza contro lo “stato di natura” il Dioha creato una sorta di società contrattuale con cui, cedendo alla tentazione di assolutizzare il suo potere, si è fatto creare la rocca che ne costituisce il sigillo promettendo ai Giganti qualcosa che non potrebbe dare (Freia, dea dell’amore e dell’immortalità degli Dei).

Ha poi barattato il compenso promesso con un altro, l’anello sottratto con la frode ad Alberich.

Egli ha così scatenato quel male attraverso le lacerazioni dell’innocenza primigenia che percorre il mondo: l’illusione di creare una razza di eroi liberi e svincolati dalla legge che rimettano le cose a posto si rivela fallace proprio a causa dell’altra contraddizione che caratterizza il personaggio: è pur sempre lui, Wotan, che ha creato tali eroi e le condizioni con le quali questi possano impunemente infrangere la legge, cosa che Fricka, sua sposa e nume tutelare della legalità familiare può rinfacciargli nel drammatico duetto del secondo atto dell’opera.

Dunque le contraddizioni interne al sistema contrattuale si rivoltano contro colui che credeva di poterle gestire facendo fallire il tentativo di conservare il mondo dalla maledizione dell’anello; inevitabile sarà la necessità di sacrificare il figlio Siegmund che prelude ad altro terribile sacrificio: la punizione atroce verso la figlia Brunnhilde contro di lui ribellatasi.

Il tema di Walküre, quindi, trae la sua ragion d’essere dal peccato originale consistito nel violentare  lo stato di natura per trarne un “mondo di patti” i cui temi fondamentali sono quelli della “lancia”, simbolo del suo potere limitato e quello del “Walhall”, segno del prestigio del potere.

Le ragioni storico-politiche che indussero il Compositore ad abbandonare definitivamente la struttura del melodramma ed una sua evoluzione filosofico-culturale fu la partecipazione attiva ai moti del ’48, aderendovi, in modo abbastanza vistoso, sia pure in nome di un idealismo estetizzante; egli salì sulle barricate a Dresda insieme a Bakunin e tale esperienza gli provocò una delusione fortissima, di carattere politico, perché il ’48 rappresentò la repressione di tutti i moti liberali, e la delusione fu tale che egli aderì, un paio di anni dopo, alla filosofia di Schopenhauer il cui capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, era però caduto nella totale indifferenza per poi ricevere enorme successo nel 1852 proprio soffiando il vento del pessimismo per le grandi delusioni di cui la società borghese aveva sofferto.

Facendo tesoro di siffatto tema politico, lo spettacolo che il Massimo napoletano ripropone dopo 14 anni è il medesimo andato in scena nel 2005, firmato da Federico Tiezzi, forte di prestigiosi premi internazionali in cui l’elemento primordiale si fonde con il dramma borghese i cui personaggi, efficacemente demitizzati, rappresentano la decadenza di una società corrotta destinata al disfacimento in virtù delle lacerazioni e della corruzioni che alligna nel suo tessuto connettivo.

Un palcoscenico assolutamente prosciugato da orpelli mostra un’ambientazione in abitazioni borghesi con cenni di tavola imbandita in onore dell’ospitalità che Hunding riserva al suo sgradito ospite e nemico Siegmund, con alle spalle una forma evocante il frassino del mondo concepito come le vampe pronte ad inghiottire l’intera insulsa costruzione pattizia con cui la Divinità ha contrastato il libero fluire della legge del mondo.

La dimora degli Dei è una struttura semplice con semplici ed informi massi adagiati, simbolo della rocca del Walhall dalla quale Wotan esercita il potere assoluto ma disposti in modo da dar l’impressione che essi siano sospesi nel vuoto: simbolo della caducità di quel mondo pronto a crollare in qualunque momento. In esso disposta in bella vita l’argenteria pronta ad essere lucidata e tanto di servitori che entrano in scena a porgere la lancia (l’essenza della regalità). Recitazione ridotta all’essenziale, quasi banale, come la scena nella quale Brunhilde strappa dalle mani la spada con cui Siegmind vuole uccidere nel sonno la sua sposa.

Pura idealità che rivendica nella musica e solo nella musica la legittimazione del tragico che anima l’agire universale di una società corrotta che trae la sua corruzione dal peccato originale dei suoi stessi creatori.

Parimenti i costumi, bellissimi, disegnati da Giovanna Buzzi, rinviano all’estetica borghese dell’800 di talchè Wotan, Fricka e la stessa Brunnhilde appaiono imponenti figure di dispotici possidenti avviluppati nelle loro contraddizioni della quotidianità che assurgono ad elementi universali del decadimento dell’intera società.

Idea particolarmente ardita, e forse non pienamente condivisibile, quella di trattare l’imponente e celeberrima scena della “cavalcata” in un palcoscenico attrezzato come un immensa sala ove gli eroi vengono trattati dalle otto Valkirie come cadaveri da esaminare su un tavolo settorio per poi esser portati via mentre in alto, sospesi nel vuoto, vaneggiano forme quadrate con all’interno pezzi di corpi trattati come manichini: la tradizione e la musica mai come in questo caso hanno una potenza trascinatrice troppo potente da stridere con soluzioni, per così dire, innovative.

Spettacolo, dunque, di livello eccelso che segna un altro importante passo della direzione artistica del Teatro nella persona di un intellettuale illuminato e competente, Paolo Pinamonti, di saper alternare titoli di repertorio con altrettanti dal gusto più ricercato e raffinato, di più difficile comprensione, ma che indubbiamente fanno la differenza rispetto il generalizzato copia-incolla di titoli che campeggiano nei teatri italiani affamati di pubblico che riempia-la-sala per poter rivendicare maggiori finanziamenti: mai come in questo caso il segnale della decadenza culturale potrebbe essere impersonato dall’opera wagneriana che del concetto di decadenza ha costruito il suo nocciolo espositivo fondamentale.

Le lodi al direttore d’orchestra Juraj Valcua parrebbero, a questo punto, scontate: col tempo il pubblico napoletano ha imparato ad apprezzare ed amare questo artista geniale, raffinato, intelligente e schivo che, come un re Mida, da un senso compiuto ad ogni suono che il movimento della sua bacchetta provochi.

Con la sua conduzione le quasi cinque ore di musica sono letteralmente volate e l’ascolto attento permetteva in modo agevole l’individuazione nitida di tutto l’ordito dei leitmotive di cui l’opera è composto; con un gioco armonico e sapiente scelta dei tempi il Direttore d’orchestra ha svelato la trama del pensiero wagneriano punto per punto preparando l’orchestra in modo eccellente.

Unico punto dolente del complesso napoletano (di cui si spera che l’amministrazione del teatro si faccia carico una volta e definitivamente, senza condizionamenti sindacali e di timbra cartellini varii) si è rivelata la non pulizia del suono degli ottoni (trombe, tromboni e corni) nelle numerose frasi in cui l’infida partitura li lascia totalmente scoperti (si pensi al tema della spada, od a quello delle Valkirie od a quello di Sigfried). Notevoli note sporche od addirittura stecche – per usare un gergo più colorito – hanno gettato un’ombra sulla generale preparazione dello strumentale in cui gli archi hanno principalmente eccelso.

Nel generale turn over di cui le orchestre sono oggetto, opportuno parrebbe anche la scelta di un rinnovo con nuovi e più motivati strumentisti nelle sezioni appena citate per dare vigore e nitore ai fiati che nelle orchestra tedesche ed inglesi rappresentano un vero fiore all’occhiello.

I due cast che si sono alternati sul palcoscenico sono stati entrambi di altissimo livello e di meditata scelta.

Siegmund è stato impersonato da Robert Dean Smith alla prima dell’opera che si è distinto per fiati lunghissimi, timbro scuro e squillo deciso tipico dell’heldentenor tedesco e da Magnus Virgilius che, nella seconda recita, ha dato al personaggio un taglio più umano, meno eroico il cui aspetto dolente si addiceva a perfezione con la sua voce argentea, cristallina, dai bellissimi accenti e perfetta dizione.

La sua sposa Sieglinde era, in prima serata, Manuela Uhl, ed in seconda recita Barbara Havemann entrambe soprani lirici dalla forte caratterizzazione drammatica di eroina che pur non piegandosi accetta il destino che le viene imposto di genitrice dell’eroe puro, libero dalla legge, e capace di ristabilire l’ordine della natura. Splendida la frase “O hehstes Wunder” (O sublime miracolo..) pronunciata nella consapevolezza che suo figlio Sigfrido potrà brandire nuovamente la spada infranta dal Dio.

Efficacissimi anche i cantanti che hanno impersonato il ruolo di Hunding di cui si segnala la particolare gravità e potenza del timbro di Rùni Brattemberg di cui, talvolta, si notava qualche apertura nelle vocali, rispetto al personaggio, parimenti timbricamente centrato, di Liang Li, che rispetto al primo ha disegnato un eroe antagonista più compassato, meno iroso ponendo in rilievo l’aspetto della lealtà verso il rivale Siegmund nella scena dell’ospitalità al primo atto.

Meritati gli applausi rivolti al tormentato Wotan di Egils Silins dotato di una bellissima voce che copre estensione di basso – baritono, corposa ed omogenea sia nel registro acuto che in quello grave; a differenza di Tomas Tòmasson che, pur avendo reso una splendida interpretazione alla fine dell’opera, in particolare nel duetto con Brunilde al terzo atto, ha rivelato qualche momento di stanchezza.

Ed infine la protagonista, Brunnhilde, per l’interpretazione della quale sono state scelte due cantanti molto diverse tra loro nei due cast.

Manuela Uhl appariva una reale Walkiria, anche nell’imponenza della fisicità, autentico soprano drammatico quasi evocante la figura sacra di Birgit Nillson, con acuti sicuri e corpo centrale della voce impostato con un timbro bellissimo ed in grado di correre indomito in tutta la sala; al contrario Barbara Haveman è un soprano lirico con tessitura molto acuta, fiati più corti (lo si è ben notato nelle celebri grida di richiami) efficace a rendere l’idea della femminilità della protagonista che si è scontrata con quella parte della partitura ove ella deve affontare una tessitura più grave (il duetto Brunnhilde – Siegmund al secondo atto ove a quest’ultimo gli viene rivelata la sua imminente morte per volere del Dio) ed una più spiccata declamazione dei versi.

Lodevole anche la prova di Ekaterina Gubanova nel ruolo mezzosopranile di Fricka, la custode dei patti matrimoniali e coscienza interiore di Wotan. Corposità e spessore di voce nonché pulizia del fraseggio hanno disegnato un personaggio compassato e deciso nel fondamentale duetto del secondo atto.

Brave e precise le otto walkirie nella parte “corale” ad essa riservata magnificamente seguite dalla bacchetta di Valcua.

In definitiva entrambi i cast sono allo stesso livello e si consiglia di assistere ad almeno due recite nelle quali siano presenti entrambi.

Si spera che le future scelte del Teatro si orientino alla messa in scena di altre opere della Tetralogia colpevolmente assenti dal palcoscenico da tanti, troppi anni.

 

La Recensione si riferisce alle serate dell’11 e 12 maggio.

 

Pietro Puca

 

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