“Materia prima”, il corpo nella terra
e l’anima verso il cielo

Echi primordiali, per non dire tribali, echeggiano in “Materia prima”, il nuovo lavoro teatrale di Domiziano Cristopharo e José Luis Lemos, presentato a Interno 4 di Roma assieme a Chiara Pavoni. Danza, improvvisazioni, campane tibetane, figure di morte e rinascita su corpi nudi, ora piegati dallo sforzo, ora slanciati verso punti altissimi d’infinito. Se il concetto di partenza é il movimento Ankoku-Butō, attivo in Giappone negli anni Cinquanta, non é difficile scorgere le contaminazioni e i riferimenti di un lavoro che ipnotizza e coinvolge, complice anche la ieratica presenza della Pavoni, vestale di una cerimonia che si consuma come una candela, e si riaccende quando sembra spegnersi.

In un’altalena che alterna geometria e disordine, eros e gelo, i tre interpreti ci accompagnano in un viaggio di poche parole, tanti gesti e sprazzi di insospettata ironia. I corpi coperti di argilla possono essere algide statue come emozionanti crete da modellare, lo sguardo ce lo mette lo spettatore, in un rito demistificante, orgiastico, esaltante, macabro, persino funebre. Cos’è dunque questa “materia prima”, se non la nostra carne, esposta brutalmente – o esaltata – con la stessa oscena, rinfrancante, libertà.

La coesione perfetta dei tre attori consente, tuttavia, di riconoscerne le rispettive peculiarità. Cristopharo é la poesia, in un dono di sé che diventa quasi agnello su un altare sacrificale, mentre Lemos si fa demiurgo e sacerdote di inconfessabili castighi. La Pavoni celebra, illumina – anzi, meglio, rischiara – la scena, facendosi ora cornice ora quadro, mater dolorosa in atto (ri)generante, ora pallida tricoteuse, Cassandra di possibili, inevitabili, lutti.

Se esiste un futuro per un teatro libero e possibile, è da cercare in spazi come Interno 4, nel cuore del centro storico di Roma. In sale come questa la voce dell’Arte può risuonare forte e chiara. Non per consolare, non sia mai, ma per provocare, scuotere, anche disturbare.
“Se scrivi qualcosa che non offende nessuno, non hai scritto niente”. Non lo ha detto Achille Lauro, ma Oscar Wilde, 150 anni fa.

Antonio Mocciola

 

 

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