“La voce (dis)umana”: un filo che uccide

Ottima prova d’attrice di Giulia Cavallini diretta da Michele Redaelli.

phMarcoBorrelli_02042016_3146Una donna al telefono nel disperato bisogno d’amore. La certezza della fine di un rapporto e la folle speranza che, forse, lui possa tornare. Una speranza alimentata e nello stesso tempo negata dalla presenza dell’altro al telefono che, probabilmente per un irrefrenabile senso di colpa, continua a parlare cercando di rassicurarla e di “traghettarla” verso l’autonomia. Ma la protagonista di “La voce umana” di Jean Cocteau (testo del 1930) non è pronta a lasciarlo andare, non accetta la separazione e, in un momento di dolore acuto, tenta anche il suicidio. La telefonata, di cui consta il monologo teatrale, è tutta focalizzata su di lei. Dall’altro capo del telefono potrebbe anche non esserci più nessuno. Potrebbe trattarsi solo di un ultimo folle tentativo di vivere nell’illusione di una relazione ormai finita. L’immagine di questa donna completamente soggiogata dall’amore non può che ricordarci la celebre interpretazione di Anna Magnani nel film “L’amore” di Roberto Rossellini, ma stavolta a darle voce è Giulia Cavallini, attrice di grande talento diretta dalla regia puntuale di Michele Redaelli che riesce a dare allo spettacolo, in scena con il titolo “La voce (dis)umana” presso lo spazio Magma, un tono emotivo teso e visivamente efficace. Merito, sicuramente, anche della forte espressività della Cavallini che esplora con il corpo tutte le emozioni, paura, dolore, malinconia, disperazione, spaesamento, e le rielabora mescolando voce e respiro. Sembra di poterle stare accanto, di sentirne l’affanno interiore, la tensione dei muscoli e il loro improvviso afflosciarsi, crollare nell’abisso del dramma.

12959344_10209409900472634_229472132_oIl filo rosso del telefono è corda pronta per l’estremo gesto. È unico legame ancora rimasto con l’altro. È il filo che la tiene ancora incollata alla vita. È la precarietà della nostra esistenza, debole e sottile. È simbolo del bisogno di attaccarsi alle piccole cose, per sopravvivere, alle piccole frasi, a quei gesti di affetto residui di un amore finito. La presenza dell’altro, la sua vicinanza nonostante tutto, è devastante perché priva la donna anche della possibilità di provare rancore, lascia spazio solo al dolore. La Cavallini si presenta leggera, quasi effimera nei suoi movimenti, come l’ipocrisia con cui finge – almeno all’inizio – di aver accettato che le cose siano andate in questo modo. Eppure continua in modo estenuante a chiamarlo “amore”, attende di risentirlo e smania di fronte alle interferenze telefoniche (molto frequenti nei tempi passati, quando la comunicazione avveniva attraverso i telefoni fissi). Poi il crollo. L’asfissia, splendidamente narrata dalla pantomima dell’attrice che cerca un percorso di salvezza e di sopravvivenza sott’acqua. Sembra di assistere alle diverse fasi del lutto, in cui si alternano disorientamento, incredulità, angoscia, rabbia, rassegnazione. Un’ottima prova d’attrice, quindi, per la Cavallini e una messinscena dal sapore poetico.

Firenze – MAGMA, 2 aprile 2016

Mariagiovanna Grifi

LA VOCE (DIS)UMANAdi: Jean Cocteau; Regia: Michele Redaelli; Assistente alla regia: Federica Niro; Costumi: Dagmar Elizabeth Mecca e Indigo Miller; Special thanks to: Daniele Davitti; Interprete: Giulia Cavallini.

Foto: Marco Borrelli.

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