La Cupa Fabbula di un omo che divinne un albero, “Si lascia una parte di sé da qualche parte per poi tornarci”

Un incipit arcaico, un’essenza primitiva che sfocia nel liturgico, un dramma familiare dalle mille sfaccettature di sentimenti, emozioni, relazioni nelle quali si ritrova un pizzico della tragedia greca ed echi shakesperiani; questa è La Cupa, il nuovo lavoro di Mimmo Borrelli in questi giorni in scena al San Ferdinando di Napoli in debutto nazionale. Quest’opera di cui Borrelli è autore, attore e regista, inaugura dopo “La Trinità dell’acqua”  – ‘Nzularchia (2003), ‘A Sciaveca (2006), La Madre: i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma (2010) –  “La trinità della Terra.

La Cupa è una cava, un mondo parallelo i cui abitanti hanno la polvere bianca sulle spalle e i volti pallidi ma non è così dissimile dal nostro reale: dinamiche familiari laceranti e irrisolte, legami indissolubili, tradimenti, passioni; ritroviamo ne La Cupa tutte le nostre ossessioni. Obiettivo principale del drammaturgo è quello di indagare e forse trovare un senso alla “paternità”, ma si va ben oltre il tema portante: le dicerie, i rapporti amicali, la fedeltà, il buonsenso, il rispetto dell’altro, il passato che ritorna, il non detto, i sensi di colpa; Borrelli mette in scena – esacerbato all’ennesima potenza – il nostro mondo, quello che non amiamo raccontare e raccontarci.

La Cupa altro non è che una cava della zona flegrea che sfonda la quarta parete e arriva tra gli spettatori con una sorta di piattaforma elisabettiana, le poltrone avvolgono la scena orizzontalmente e frontalmente. Un pianeta domina il palco al di là della ribalta, ma non mancano momenti in cui questo pianeta rotoli verso di noi. Questo mondo parallelo arriva a noi però soprattutto attraverso la sua parola, ormai cifra stilistica dell’autore. Una parola dialettale, a tratti incomprensibile e sconvolgente, un verbo volgare e graffiante, un vernacolo descrittivo e materico, una parola spesse volte rimata che fa della pièce un poema.  Quest’epicità da poema è avvalorata da una scenografia lunare, da luci buie ma rischiaranti, da una musica dolce, da costumi che sembrano stracci macchiati e logori ma affascinanti.

Ma la vera carta vincente dell’intero allestimento è il corpo attori e il lavoro che il regista ha fatto e fa sulla scena con gli interpreti. Tutti in parte, tutti coinvolti nella storia e nel volerla raccontare. Non vi è imprecisione ne mai distrazione nella loro interpretazione fatta di canti, del denso dialetto flegreo, di una veemente fisicità, di gesti ripetuti. Una menzione speciale meritano Stefano Miglio alias Ciaccone e Veronica D’Elia altrimenti detto Rachela che interpretano in modo magistrale rispettivamente il maiale e la papera. Ma il valore aggiunto della messinscena è Marianna Fontana, una protagonista inappuntabile nel ruolo di Maria delle Papere, una ragazza cieca dal destino già segnato. Col suo corpo minuto, il suo incedere incerto, il suo canto conquista la scena e il pubblico tutto.

Rimane però inspiegabile la divisione dello spettacolo in due parti.

Mariarosaria Mazzone

Teatro San Ferdinando 12 e 19/04/2018

LA CUPA
FABBULA DI UN OMO CHE DIVINNE UN ALBERO
versi, canti, drammaturgia e regiaMimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
disegno luci Cesare Accetta
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale

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