Il traduttore, questo sconosciuto

Non sempre in locandina viene citato il traduttore. Ma il suo apporto in una messinscena è fondamentale. So per certo che molti teatranti, non paghi di scrivere “adattamento e regia di…” preferiscono scrivere “traduzione e regia di…” pur avendo una conoscenza molto approssimativa della lingua del testo originale. La storia della letteratura testimonia peraltro casi di famosi traduttori, che non avevano una conoscenza profonda della lingua da cui traducevano. Per tutti, vale il feroce distico di Ugo Foscolo, che se ne intendeva, anche per essere di lingua madre greca: “Questi è Monti poeta e cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero”.

Ricordo invece con ammirazione e tenerezza una pregevole edizione de L’ispettore generale, prodotto dal teatro Stabile di Genova per la regia e le scene di Matthias Langhoff, nella cui locandina un onesto – oltre che valoroso – uomo di teatro aveva fatto scrivere, con rara e ammirevole umiltà: “versione italiana di Vittorio Franceschi dall’adattamento francese di André Markowicz”.

Quando si tratta di tradurre per il teatro, si pone un problema in più: non basta la fedeltà testuale – che è già impresa ardua – ma le parole, come dicono i teatranti, “devono stare in bocca”.

Questa la premessa per spiegare la lieta sorpresa di trovare, nella cartella stampa di una interessante edizione della Bisbetica domata, subito dopo le note di regia di Andrea Chiodi, un’intera pagina a firma di Angela Demattè, responsabile della traduzione e dell’adattamento. Lo spettacolo era realizzato integralmente en travesti, con uno splendido Tindaro Granata nei panni di Caterina, ma colpiva, in particolare, l’attenzione alla qualità della traduzione. Angela, dopo aver spiegato il motivo del recupero di una cornice meta-teatrale, di solito eliminata, ci offre una suggestiva riflessione sul lessico di Shakespeare, in una stagione culturale in cui nascono “parole, metafore, paragoni che rimarranno nella lingua inglese per sempre”. E aggiunge che The Taming of the Shrew è “una farsa, badate, fatta di parole e non di salti e capriole”, dove quindi le metafore, le rime, le assonanze hanno un ruolo fondamentale, e gli attori devono saperci giocare, per restituirci l’originalità e la vivacità semantica della lingua del Bardo.

Nel finale della nota, Angela sembra lasciarsi andare a una sorta di confessione, che consente di comprendere appieno l’appassionante, magica, divorante fatica insita nel mestiere del traduttore: “Straniti ma poi ammaliati dalle parole cadiamo nella loro trappola”.

 

Claudio Facchinelli

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