“Il sogno di un uomo ridicolo”, la coscienza della verità

Gabriele Lavia incarna il testo di Dostoevskij al Teatro della Pergola: «Ho cominciato a sentire e ad accorgermi con tutto il mio essere che vicino a me non c’era niente».

«La coscienza della vita è superiore alla felicità». Sfiora la standing ovation “Il sogno di un uomo ridicolo” di Gabriele Lavia, una rappresentazione dell’omonimo testo di Dostoevskij in scena al Teatro della Pergola. Dal buio del palcoscenico appare una bianca figura, rannicchiata a terra, su un pagliericcio simile a una mangiatoia. È l’uomo ridicolo, o pazzo, che dir si voglia. L’attore è trasfigurato nel personaggio di Dostoevskij e inizia, nella sua veste da manicomio, un monologo di circa un’ora e mezzo. Non sono più battute imparate a memoria, sono un qualcosa di più, che Lavia ha incorporato nel suo essere e che ora sprigiona come se davvero fosse un uomo recluso e voglioso di liberarsi da un peso, come da quella camicia che gli imprigiona le braccia. Comincia a vagare, l’uomo ridicolo. Luci fredde si alzano e ci si accorge che il palcoscenico è un’enorme mangiatoia su cui il protagonista trascina i piedi nudi. Il suo essere catalogato come pazzo, ci spiega, è solo un gradino superiore all’essere ridicolo, come tutti lo hanno considerato fin dall’infanzia. E del resto ogni tanto si erge dal pubblico un accenno di risata, che forse aiuta Lavia ad esprimere ancor meglio il tormento interiore di questo personaggio isolato, che è il solo a conoscere la verità, a portarne il fardello pesante, mentre la società non capisce.

Se Massimiliano Aceti rappresenta l’Io dell’uomo ridicolo, Gabriele Lavia è il suo Es, un inconscio che racconta la storia di quella giornata piovosa di novembre, di cui ricorda ogni momento. L’Io-Aceti è ben vestito, ha con sé un ombrello per ripararsi dalla pioggia; l’Es-Lavia gli gira intorno con movimenti scattosi, isterici. Due cose accomunano ad un tratto le due facce dell’uomo ridicolo: una stella emersa dal nero del brutto tempo e una bambina che si rivolge proprio a lui, di solito ignorato da tutti. Due emozioni contrapposte lo assalgono; che fare? Seguire la stella e uccidersi per divenire un niente al pari del mondo circostante? Ma se intorno a lui non c’è niente, perché la bambina si è rivolta a lui? E perché lui ha provato pietà?

L’uomo ridicolo, o pazzo, è pur sempre un uomo. Come uomo, ha paura di ciò che sente, del dolore, di uccidersi. È scientifico, secondo la psicoanalisi, che le turbe interiori dell’umano siano proprie del suo Es e che si rivelino nei sogni. Fedelissimo a Dostoevskij, Lavia ci porta nel sonno dell’uomo ridicolo, che sogna la vita dopo il proprio suicidio. La luce calda della candela sulla scrivania a un lato del palcoscenico ci ricorda che siamo in un sogno; posta davanti all’Io-Aceti addormentato, perfettamente immobile come la statuaria bambina sul lato opposto, la rossastra luce della candela è simbolo di vita in una scena bianca, fredda e glaciale, in cui l’Es-Lavia continua ad addentrarsi, disperarsi, dimenarsi inutilmente, costretto dalla camicia di forza. L’uomo ridicolo pensa di essere morto. Sogna di giacere nella terra fredda e umida. Gocce cadono dal viso dell’attore, come se fossero filtrate dalla bara. Poi, attraverso un viaggio in vicoli oscuri, è condotto nel pensiero latente, in un mondo altro, all’interno della sua buia interiorità. Il sogno riassume la storia dell’umanità, originata da un passato arcaico, ideale, pieno di luce e di bellezza, in cui gli uomini vivono sereni nella propria perfezione, in pace con se stessi e con gli altri, privi di ogni peccato.

Una realtà troppo incredibile per essere realtà, o comunque troppo fragile per rimanere tale, contaminata dall’uomo ridicolo che, pur nella sua consapevolezza, resta un uomo moderno, imperfetto, egoista, viziato da ogni forma di comodità e tecnologia. «Che terribile peso è essere il solo a conoscere la verità», un peso enorme che intacca quel che resta di una morale cristiana, o meglio, umana. Così il mondo primordiale e ideale è sopraffatto. Il sogno di quel desiderio termina e l’Io-Aceti si sveglia, disgustato ora dall’idea del suicidio e diretto con convinzione verso la strada della predicazione. Rimane con noi l’Es-Lavia, adesso ben eretto, rilassato (o rassegnato); a momenti sembra quasi tornato ad essere Gabriele Lavia, non più personaggio-attore, e qualcuno nel pubblico sembra percepirlo, sempre con gli accenni di risata. «La cosa principale è: ama gli altri come te stesso (…). Ma questa è soltanto una vecchia verità che è stata ripetuta e letta un miliardo di volte, ma che non ha attecchito». L’uomo ridicolo-Lavia afferma che continuerà comunque a predicare. Lieto fine o missione impossibile ai nostri tempi? La riflessione è aperta. Mentre Lavia sembra tornare completamente nella tormentata costrizione fisica e mentale, da manicomio, in cui si è presentato all’inizio dello spettacolo, e il monologo riparte: «Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo. Potrebbe essere una promozione se per loro non rimanessi comunque un uomo ridicolo. Ma ora non mi arrabbio più. Ora li trovo tutti gentili, perfino quando ridono di me, anzi proprio allora li trovo particolarmente gentili…», fino a sfumare in una totale oscurità.

Firenze – TEATRO DELLA PERGOLA, 6 maggio 2015.

Benedetta Colasanti

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLOSoggetto: Fëdor Dostoevskij; Regia: Gabriele Lavia; Interpreti: Gabriele Lavia, Massimiliano Aceti; Allestimento: Laboratorio di costumi e scene del Teatro della Pergola; Produzione: Fondazione Teatro della Toscana.

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