I Carmina Burana di Orff all’Arena di Verona

Una cornice spettacolare unica al mondo, coniugata con una musica di immediato impatto emotivo e la capacità comunicativa di Ezio Bosso suscitano entusiasmi e ovazioni non frequenti in un concerto

Non appaia incongruo che un recensore teatrale, che solo occasionalmente si avventura nei territori della musica, si occupi di un evento cui ha presenziato all’Arena di Verona.

All’Arena non si va per assistere a un’edizione filologica di un’opera, di un balletto, di un brano musicale: si va per immergersi in un’atmosfera carica di suggestioni storiche, artistiche, spettacolari; per godere della felice congiunzione di prodotti diversi dell’ingegno e della creatività umana.

Il programma dell’Opera Festival 2019 dell’Arena comprendeva, quest’anno, l’esecuzione di un pezzo ampiamente noto e popolare: i Carmina Burana.

Carl Orff li aveva composti nel ’39, ma nell’immediato dopoguerra non erano stati molto eseguiti. Pesava, forse, una sorta di ostracismo per un musicista che, pur non aderendo al nazismo, a differenza di altri che avevano scelto la via dell’esilio, come Paul Hindemit o Erich Kleiber, aveva accettato, come Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler, il compromesso che consentì peraltro alla cultura musicale tedesca di non essere decapitata, perdendo tutti i suoi esponenti più illustri. Era rimasto in Germania, continuando a insegnare (una vocazione sincera e coltivata con determinazione), e a comporre, pur senza più raggiungere il successo conseguito con i Carmina.

Il gioioso, trasgressivo vitalismo di quei canti goliardici, scoperti oltre un secolo prima nel monastero bavarese di Benediktbeuern, non era peraltro confacente alla weltanschauung nazista, e l’opera fu osteggiata dal regime. La prima registrazione di cui si ha notizia risale, infatti, alla fine degli anni Sessanta. Il lavoro era stato tuttavia eseguito al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino alcuni anni prima, nell’interpretazione di un valoroso gruppo vocale e strumentale dell’allora Jugoslavia. Ero presente e, da adolescente qual ero, il forte impatto emozionale, in specie del carme di apertura intitolato alla Fortuna imperatrix mundi, mi aveva fortemente colpito e affascinato.

Poi, acquisita notorietà, il pezzo era entrato con stucchevole frequenza nelle produzioni del teatro della scuola, ed era stato sfruttato in modo invasivo, gastronomico, anche in pubblicità.

A me era tuttavia rimasta la voglia di assistere a un’esecuzione ove fosse realizzata l’indicazione dell’autore: con mimi e ballerini e cum imaginibus magicis. Fidando in questo, avevo deciso di andare ad assistere all’esecuzione programmata all’Arena, ed avevo appreso con un certo disappunto che, in quella favolosa cornice, la musica sarebbe stata accompagnata solo da un sontuoso progetto di luci.

C’era tuttavia un elemento che creava forti aspettative: la presenza sul podio del Maestro Ezio Bosso.

La sua esibizione a Sanremo gli aveva dato una visibilità e una notorietà popolare che trascendeva largamente la fama di musicista di cui pur aveva goduto prima del periodo di inattività cui era stato costretto (Bosso era stato, tra l’altro, un brillantissimo solista di contrabbasso).

Per l’occasione, l’Arena aveva registrato il tutto esaurito: 13 500 spettatori. “Non ho mai visto tanta gente qui”, mi aveva confidato una frequentatrice abituale, seduta accanto a me, mostrandomi gli spalti traboccanti di pubblico fino ai bordi estremi del grande anfiteatro.

Il direttore d’orchestra ha di per sé una funzione che trascende le pur fondamentali indicazioni agogiche e dinamiche (cioè di tempo e di volume). La sua figura comunica, affidandosi a elementi non verbali, né solo convenzionalmente gestuali, qualcosa di più, che non è facilmente esprimibile in termini razionali, così come non lo è la comunicativa espressa da certi attori in teatro. Grandi direttori – per citarne solo qualcuno: Leopold Stokowski, Leonard Bernstein, Sergiu Celibidache – hanno evidenziato in modo addirittura spettacolare questa loro attitudine.

Ezio Bosso sembra aver particolarmente curato questa scelta comunicativa, coerente con le suggestioni offerte dall’Arena di Verona.

L’ingresso del Maestro sul palco, in carrozzella, spinto da un’elegante assistente, suscita una prima ovazione in piedi.

Sistemato sul podio, Bosso dirige a memoria, con piglio autorevole. Non abbandona mai la bacchetta (“come quella di un mago”, ama dire). Il suo gesto direttoriale è instancabilmente rivolto alle varie sezioni della massa orchestrale (99 strumentisti), che sembra rispondere con efficacia alle suggestioni di colore, di temperatura, che riesce a esprimere. Quasi dopo ognuno dei vari carmi (sono 24), scoppia l’applauso.

Il testo, come è noto, mescola diversi idiomi medievali: latino, francese, tedesco. Il coro articola le parole con chiarezza, anche se si sarebbe gradita o maggior attenzione filologica alla pronuncia. Il criptico ritornello: “Mandaliet, mandaliet, min geselle chomet niet” viene ripetuto dalle voci bianche con una pronuncia diversa rispetto al coro adulto; e così le “g” del testo latino escono ora dure (alla tedesca), ora dolci (come nella lingua ecclesiastica). Ma il pubblico sembra non preoccuparsene, e forse ha ragione.

Il disegno luci mostra una immensa luna dalle sfumature mutanti, e colora dinamicamente l’intera curva dietro il palco, integrato da bracieri accesi in proscenio e, nel finale, da abbaglianti colonne di fuoco. In più, alta nel cielo, era visibile una luna quasi piena (forse non prevista dalla scenografia). Il tutto ha una sua suggestività, ma è lo stesso maestro Bosso a confidarmi, in una breve intervista, la sua aspirazione a dirigere, un giorno, i Carmina con una compagine di mimi e danzatori.

Alla fine, applausi fragorosi, ovazioni in piedi. Enzo Bosso percorre più volte tutta la larghezza del palco, spingendo da solo la sedia a rotelle, e fermandosi ogni volta al centro, ad accogliere reiterate ovazioni.

Certo, il pubblico applaude un’esecuzione appassionante; ma anche e specialmente un uomo che, sostenuto da uno spirito indomito, ha saputo superare le vicende che, in un passato recente, l’hanno costretto a interrompere la sua attività artistica. Nell’intervista concessami, Bosso ha preferito non parlarne, per formulare invece un discorso di più ampio respiro.

La vita musicale di un musicista è forzatamente legata alla sua vita fisica e spirituale, e la ricerca del bello che non necessariamente deve passare attraverso il patimento fisico, come ci insegna la storia; ma anzi proprio la disciplina, la curiosità inesauribile dettata dalla musica sono alcuni degli ingredienti che insegnano a superare certi momenti. Quando parlo di trascendenza parlo di questo, cioè dimenticare le miserie e dedicarsi all’altro. Anche per questo la musica è decisamente terapeutica”.

Quanto al merito dei Carmina, per Enzo Bosso (riporto dal programma di sala), “… il ruolo dell’uomo di cultura è proprio quello di rendere popolari i tesori della storia”. E cita i clerici vagantes, i poeti e musicisti autori dei carmi, studenti vagabondi d’ogni parte della nascente Europa, cittadini del mondo, concludendo: “Clerici vagantes siamo noi tutti stasera, e insieme celebriamo la vita, la musica e la fortuna!”.

Claudio Facchinelli  

Carmina Burana di Carl Orff

Direttore Ezio Bosso

Soprano Ruth Iniesta, Controtenore Raffaele Re, Baritono Mario Cassi

Orchestra e Coro dell’Arena di Verona; Maestro del Coro Vito Lombardi

Coro di Voci bianche A.d’A.MUS. diretto da Marco Tonini

Coro di Voci bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona.

Visti a Verona l’11 agosto 2019

Share the Post:

Leggi anche