“EROS E PRIAPO”: ebrezza e debolezza dell’umana nudità

eros-e-priapo-006-sito-642x3361-642x330Un tavolo e qualche sedia di legno, tamburi, voci di infanti e qualche stridente suono strumentale.

Null’altro, la voce di Massimo Verdastro, eccelso interprete del testo Gaddiano, basta e sovrasta, diretta dalla magistrale regia di Roberto Bacci.

Entra in scena con uno scopettone e guanti neri, un’antitesi fra gesto e colore: ripulire, chiarire, far luce sugli eventi e gli accadimenti del nero ventennio fascista.

Il complesso linguaggio dell’autore trova in Verdastro tutta la forza espressiva che necessita. Sin dalla prima parola la potenza attoriale irrompe sul palco in un continuo crescendo su una scala musicale che gioca con la voce e rapisce la platea, lasciandola sospesa, stupita, attenta.

 

La parola è sarcastica, dolorosa, a tratti piena di rabbia, a momenti quasi insostenibile. È espressione di un vissuto drammatico che ha coinvolto 44 milioni di persone tenute da fili illusori, fatti di promesse e di un credo disilluso. Un credo cui il “popolo sfrenetizzato” si è aggrappato militando e plaudendo “il marcaurelio dalle gambe a x”.

 

La messa in scena segue un ritmo in salita, l’attore racconta e vive accadimenti ed eventi.

Narra e mima donne affascinate e soggiogate, completamente rapite dall’eros del dittatore. Un andare fiero, un incedere austero in sfilate e parate, una folla di gonne nere e “culoni ondeggianti”.

Donne, cassa di risonanza della parola del Ku-ce (così come viene inneggiato istericamente dalle masse), donne rapite dall’io-fallo e per questo veicoli di trasmissione dei motti, nonché procreatrici di giovani da mandare alla “guerra, guerra, guerra”, per diventar anch’essi vittime del “bicchierante” creatore del mix di “patria, birri e fimine“.

 

Lo spettacolo segue, il ritmo è incalzante, la fisicità di Verdastro si muove in un incessante riordinare, raccontate, ripulire, mostrare l’ignomia e l’infamia delle gesta prive di logos.

Espressioni dialettali intervallano la pompositá linguistica mostrando come l’Italia tutta fosse tenuta dai fili di colui che da un filo a testa in giù ha visto il suo epilogo.

 

Verdastro esce di scena nel silenzio del pubblico per rintrare con un manichino da sarto, si veste degli abiti su esso riposti, si siede, composto, calmo, l’ordine è ristabilito, il manichino nero senza testa e senza giacca resta illuminato. Simbolica immagine del duce. Vent’anni di scempi e dolore si son conclusi. Ora chi Ku-ce un nuovo abito per la nostra Italia?

 

Roma, teatro di Villa Torlonia, 29 novembre 2014

 

Elena Grimaldi

 

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