Monica Guerritore

Chiacchierata con Monica Guerritore alla Versiliana

Dall’inferno all’infinito, dal teatro al cinema, dal femminile al maschile

Domenica 9 agosto 2020 il palco del gran teatro all’aperto del Festival La Versiliana (Marina di Pietrasanta) sarà abitato da Monica Guerritore, regista e interprete dello spettacolo “Dall’inferno all’infinito”. La incontriamo la mattina del 5 agosto sotto l’ombra dei pini del Caffè e intraprendiamo con lei una piacevole chiacchierata in cui l’attrice racconta e si racconta, forte della sua grande cultura umanistica.

Come è nato questo spettacolo?

«Il mio punto di partenza è la parola tra significato e significante. Sono una grande amante di James Hillman: il mio approccio alle parole e alla loro origine è psicoanalitico. Certo, un capolavoro come “La divina commedia” di Dante ha infinite possibilità di interpretazione, storiche, allegoriche… A me sembra che si tratti di un grande viaggio nell’inconscio: c’è un luogo sconosciuto, c’è la paura, una parola ricorrente, ci sono le fiere che bloccano il passo quando si vuole intraprendere il cammino verso qualcosa di ignoto che può essere un’opera, un amore, un andar via di casa. Altri simboli sono l’amico e maestro Virgilio cioè il Super Io, Beatrice, Francesca e Ugolino cioè l’amore sacro, l’amore profano e l’amore paterno».

Guerritore si muove «per libere associazioni», tra simbologie e colti riferimenti letterari: Pasolini, Morante, Flaubert: «attraverso le somme parole dei poeti, e anche attraverso la musica, io e il pubblico stiamo bene. È come se prendessimo consapevolezza di quello che Jung chiama il piccolo popolo (gli archetipi) e cominciassimo a comprendere il caos. Questo ci porta verso l’“Infinito” di Leopardi».

Immagino che il suo rapporto con la letteratura e con la lettura sia molto intenso.

«Sì. La letteratura è una leva della fascinazione. Per me la musica e la lettura non sono mai solo un sottofondo o una distrazione. In questo momento sto leggendo “La forma cinematografica” di Ejzenstejn ma nel mio lavoro di interprete la letteratura, da “Robinson Crusoe” in poi, è stata sia viaggio sia guida».

Ha citato Ejzenstejn. Qual è la differenza sostanziale tra teatro e cinema?

«Il rapporto con gli spettatori. Quando sono sul palco è come se la mia vista fosse fuori fuoco, vedo il personaggio, vedo il pubblico, ma non osservo mai qualcosa in particolare. L’immagine che si crea in scena è come un mezzo di comprensione e di dialogo tra attore e udienza ed è il primo a dominare tale mezzo: sul palco io mi rendo conto dei momenti di mancanza e quindi della possibilità di recuperare. Al cinema invece sono costretta a consegnarmi a un occhio che guarda, sperando di fare quello che il regista mi chiede e senza tuttavia fare troppo perché sul grande schermo tutto è amplificato. È difficile… A meno che l’attore non sia anche il regista e il montatore. Il cinema è una catena fatta di tanti anelli ed è interessante, per l’attore, vedere un risultato che non avrebbe immaginato. La differenza sostanziale tra cinema e teatro è che il primo non dipende dall’attore; il teatro sì, dall’attore e dal pubblico».

Qual è il rapporto tra lei e il personaggio? Viaggiando attraverso le parole di Dante, per esempio, le sembra di operare un’analisi psicoanalitica su se stessa?

«No. Non analizzo me stessa ma il personaggio. Soprattutto quando ho a che fare con autori come Oriana Fallaci non posso pensare a me. Piuttosto faccio tabula rasa e accolgo una terza cosa, un’entità posta tra personaggio e attore che pian piano assume una forma sempre più precisa. Accade qualcosa di strano; per esempio quando ho fatto “La lupa” un mio amico psicoanalista mi ha detto: è terribile, è come se tu avessi un’assassina nei geni. Era un complimento bellissimo ma quella furia non era mia, era probabilmente lo specchio di ciò che nel tempo avevo raccolto: visioni, letture, suggestioni».

Prima ha parlato di musica. Che ruolo dà alla musica? Come sceglie la colonna sonora dei suoi spettacoli?

«Un ruolo fondamentale. L’entrata di Beatrice viene preceduta da “Abla con ella” del film di Pedro Almodovar, una musica che prima della parola è capace di svelare tutto allo spettatore. Come dice Wagner: la musica è l’essenza dell’intuizione. Ogni volta che mi capita di ascoltare qualcosa di interessante salvo il brano tramite Shazam e creo diverse playlist. Quando comincio a pensare a uno spettacolo spesso parto dalla musica e pian piano creo un mosaico».

Pensando a un’intensa carriera artistica come attrice e regista, tra cinema, teatro e televisione, viene spontanea una curiosità. Ha senso secondo lei parlare di femminilità?

«Non ha senso se non teniamo conto del virile. Mi torna in mente una frase di Battisti e Mogol: le anime non hanno sesso. La femminilità e la virilità devono camminare insieme. Per molto tempo noi donne abbiamo dovuto tenere compresso il nostro lato maschile che però esiste e persiste dentro di noi. Dobbiamo essere in grado di realizzare le tante idee che troppo spesso rimangono celate nella nostra interiorità… purtroppo siamo noi per prime a pensare di non poter agire senza un uomo o di non poter essere guardate al di là della nostra esteriorità. Questo deve essere combattuto e non sarà semplice. A me ancora chiedono chi è il regista dei miei spettacoli, come a dire che il regista deve essere maschio. È difficile uscire fuori da un luogo comune ormai radicato nella nostra cultura. Una delle mie più grandi soddisfazioni è portare “Giovanna d’Arco” a Parigi, uno spettacolo italiano dedicato a un personaggio francese. Sono molto contenta».

Benedetta Colasanti

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