“Allacciate le cinture”, ma Ozpetek non decolla

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“Allacciate le cinture” segna il ritorno di Ferzan Ozpetek sui grandi schermi, in pieno fracasso post-Oscar e quasi sul ciglio della fine stagione cinematografica. Ma il film segna il passo fin dalla prima battuta (incautamente affidata all’esordiente Francesco Arca), sciorinando per quasi due ore un’impressionante serie di deja vu. Elena (Kasia Smutniak), ambiziosa imprenditrice e politically correct, s’innamora del bullo omofobo e razzista Antonio (Arca). Pazienza se sono entrambi fidanzati: lei con Giorgio (Francesco Scianna), lui con Silvia (la sprecatissima Carolina Crescentini). Scocca la scintilla, malgrado le diversità caratteriali (ma dai!), mentre i cornuti nel frattempo si erano già consolati tra di loro (a-ri-dai!). Attorno ad Elena, una madre premurosa (Carla Signoris), la di lei sorella (Elena Sofia Ricci) e il miglior amico (lo sbiadito Scicchitano), già fidanzato con il fratello morto ventenne. Arrivano i figli, Antonio ingrassa, Elena fa carriera. Ma il destino è in agguato, sotto forma di cancro al seno, che la protagonista affronta con piglio, mentre il compagno si defila con rabbia. Compagna di lettino in ospedale, l’intensa Egle (Paola Minaccioni) si prende i migliori primi piani, prima di lasciare presto il campo, come da copione. Durante la chemioterapia, a rifornire Elena di parrucche provvede la “capera” napoletana (Luisa Ranieri), cui il regista appioppa una serie di tristissimi clichet (volgare si, ma tanto bbbuona). E intanto fioccano i flash-back, giusto per fare minutaggio, mentre la sceneggiatura sbanda e la direzione degli attori va a farsi benedire. La bella Elena, sciupata si ma di nuovo appetibile per il suo redento manzetto, si salverà? Boh. Titoli di coda con Rino Gaetano che canta Cocciante. Amen.

 

Il regista turco mescola lacrime facili e bella fotografia, attingendo a piene mani dalla sua cinematografia (Salento, dolore, malattia, innocua ironia). Nella smagliante luce della remotissima Lecce non si ode un solo accento salentino, tra polacchi, romani, napoletani, toscani, siciliani e genovesi, manco si fosse a Central Park. La storia d’amore non decolla mai, e in un cast pessimamente assortito la Smutniak diviene agevolmente la migliore in campo. All’attonito Arca viene chiesto solo di muovere gli occhi e mostare più pelle possibile, ma quando apre bocca il tono del film (già precario anzichenò) crolla. La Signoris e la Ricci dovrebbero far ridere – ma son servite da battute scialbe e mal scritte, mentre il finto-sesso patinato è ridicolo quasi quanto i dialoghi, che farebbero invidia, per la piattezza, pure all’ultimo Dario Argento. E le musichette didascaliche di Pasquale Catalano sarebbero irritanti persino per una fiction di seconda fila. La mano di Ozpetek nel creare atmosfere è intatta, ma tutto il resto manca, e di brutto. Non bastano un paio di bei tramonti e i consueti ricatti emotivi di morti e malattie assortite. Il tentativo, mal calcolato, è quello di conquistare nuovo pubblico allestendo una sorta di greatest hits ozpetkiano, ma il risultato sarà quello di deludere i fans della primissima ora. Se negli ultimi film del regista turco qualcosa scricchiolava, qui la barca fa acqua da tutte le parti. La mancanza di ispirazione non è una colpa, lo è non tacere quando ciò accade. Allacciate le cinture: c’è una carriera in picchiata.

Antonio Mocciola

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