Antonio Ligabue secondo l’arte di Perrotta

Del progetto Bassa Continua – Toni sul Po, prima ancora di valutar la riuscita artistica, è da rilevare la complessità e la vastità dell’ impegno produttivo.

Bastano pochi dati per avere un’idea della incredibile dimensione organizzativa sottesa all’evento: 180 artisti in scena, fra mimi, danzatori, attori, cantanti e musicisti (5 complessi musicali), 50 tecnici, un numero incredibile di volontari; tre itinerari spettacolari in contemporanea, che si svolgono in luoghi distanti chilometri l’uno dall’altro, percorsi a piedi ma anche con trasferimenti in pullman – anch’essi momenti spettacolari – che confluiscono, con magica sincronia, nel grandioso momento finale in Piazza Bentivoglio, a Gualtieri.

Ma il fatto sorprendente è che, all’interno di questa monumentale, complicata macchina, che poteva risolversi in un gigantesco, vistoso baraccone, prendono corpo momenti di grande teatro, sia corale, sia individuale; luccicano perle di poesia, infilate con artigianale cura e passione da Mario Perrotta e dai suoi splendidi collaboratori.

L’attrazione esercitata su questo estroso teatrante pugliese dalla figura insieme fascinosa e disturbante di Antonio Ligabue, è testimoniata da Un bès premio Ubu nel 2012) e dal successivo Pitùr, due lavori che costituiscono le prime tappe del progetto. Un’attrazione che si è trasformata in un amore durevole e profondo, e ha generato un progetto utopico, temerario: un sogno, come confessa lui stesso. Ma, incredibilmente quel sogno si è realizzato, superando le più visionarie aspettative.

L’evento si articola in tre itinerari spettacolari: Percorso Città – degli uomini e dello scemo del paese, Percorso Manicomio – della coscienza dell’artista, Percorso Fiume – della solitudine e della libertà.

Il primo, Percorso Città – degli uomini e dello scemo del paese, inizia nella piazza Mazzini di Guastallla, e rievoca l’arrivo in Italia, nella Bassa Padana – luoghi d’origine del padre naturale – di uno spaesato Toni Ligabue, appena ventenne, espulso dalla Svizzera, dove era nato nel dicembre del ’99. Si tratta di un momento corale, scandito da musiche, canzoni, esibizioni coreutiche che evocano una realtà nella quale Toni non sa inserirsi; quando già si evidenzia quello stigma di diverso, di estraneo alla società, che lo segnerà per tutta la vita. Ma l’azione offre anche una carrellata storica sugli eventi del tempo, sui burleschi rituali del fascismo, rievocati dalla danza e da fantasiosi strumenti percussivi nel cortile del Palazzo Ducale, dei quali l’occhio vergine di Toni sembra cogliere l’intima, grottesca vanità. Gli spettatori sono quindi invitati con cortese fermezza a prendere posto su un pullman dai finestrini oscurati. La drammaturgia – come avverrà anche per gli altri trasferimenti – trasforma in momento spettacolarmente rilevante anche questi intermezzi funzionali alla logistica. Grazie ai discreti, ma autorevoli interventi dei conduttori, al sottofondo sonoro degli allarmi aerei, del rombo dei bombardieri, quasi inconsapevolmente il pubblico si immerge nelle atmosfere della guerra, di una ordinata ma rischiosa evacuazione. Una cupezza che, all’arrivo a Gualtieri, si scioglierà nell’annuncio della pace, nella gioia dei balli in strada, che proseguiranno in un delizioso spazio all’italiana, il Teatro Sociale, tuttora in corso di ristrutturazione, solo parzialmente agibile. Qui, su precari praticabili, va in scena un avanspettacolo, accompagnato da un’orchestrina di archi con pianoforte, mentre il Toni, presenza aliena in cerca di un impossibile contatto affettivo, continua ad aggirarsi fra quegli spazi diroccati, ove assisterà con visibile soddisfazione alla proiezione di un’antologia di baci cinematografici d’antan: da Jonny Weimuller ad Amedeo Nazzari, da Rodolfo Valentino a Cary Grant, in una sorta di trasparente, affettuosa citazione di Nuovo Cinema Paradiso.

E sarà ancora lo stesso Ligabue di Lorenzo Ansaloni, a raccontare, nella sala dei Falegnami dell’adiacente Palazzo Bentovoglio, la paurosa alluvione del novembre ’51. Una rievocazione in soggettiva, ove la drammatica cronaca degli eventi si mescola alla visione allucinata di centinaia di suoi quadri, che galleggiano sulle acque limacciose del Po, che ha scavalcato gli argini e invaso il paese.

Intanto, un altro gruppo si è mosso verso Reggio Emilia, per il secondo itinerario: Percorso Manicomio – della coscienza dell’artista, nell’antico ospedale psichiatrico San Lazzaro. Anche questa volta, i graffiti che ricoprono i finestrini del pullman, inneggianti all’ascesa di Hitler, introducono agli anni Trenta, e l’atmosfera si fa ancor più cupa all’arrivo nel padiglione Lombroso, ove severi infermieri in lungo camice bianco invitano i visitatori a sedersi sulle panche di un salone. Qui vagolano i ricoverati, anch’essi vestiti di bianco, ma diversamente sciatti e sudici, in preda a gesti ossessivi, gli occhi posati con imbarazzante fissità in quelli dei visitatori o, più spesso, presi in una realtà invisibile. Nessun segno esplicito di violenza, ma in mezzo alla stanza campeggia minaccioso un letto di contenzione. Dopo la severa, elegante prolusione di un medico, ma inappuntabile sul piano scientifico, i visitatori sono introdotti a gruppi nelle piccole celle, in ognuna delle quali un giovane Toni Ligabue, muovendosi fra paurosi marchingegni d’intervento psichiatrico, oppone all’ asettico positivismo lombrosiano la sua logica fascinosamente irrazionale, la sua poetica di artista, il suo sguardo alieno ma coerente – e forse precorritore – sull’istituzione manicomiale. Tornando nel salone, con un felicissimo colpo di teatro, il pubblico assiste a una sorprendente metamorfosi: i gesti ripetitivi degli internati si sincronizzano, trasformandosi in una non meno inquietante coreografia, prima scandita da ossessivi suoni percussivi, quindi dalle note argentine di una partita per violino solo di Bach, che torna poi a deformarsi, a distorcersi, mentre i visitatori escono muti, per incamminarsi sul pullman che li riporta a Gualtieri. Durante il viaggio, il piccolo televisore proietta un documentario girato da Romolo Valli, oltre a frammenti di un film su Ligabue, che sciolgono la conturbante violenza delle emozioni provate.

Ma dove la suggestione dei luoghi, di una scenografia naturale, esaltata da affascinanti interventi illuminotecnici, è ancora più spettacolarmente efficace, è nel Percorso Fiume – della solitudine e della libertà. Nella notte chiara, sotto una timida falce di luna crescente che occhieggia timidamente fra le nuvole (è piovuto fino a poco fa), accompagnati dal frinire dei grilli, ci si incammina lungo le strade fangose dell’argine, fra i pioppeti della golena, in mezzo ai quali, come uscito da sotto terra, prende forma un brulicante selvatico popolo di folletti che si muove al suono di strumenti a percussione. Li osserva, attratto, forse affascinato, nascondendosi dietro gli alberi, una figura in capotto scuro, dalle mosse furtive. Non appena quelle creature silvane, così come sono apparse, scompaiono nella tenebra, ci lasciamo guidare dai timbri sensuali di un quartetto di sassofoni, suonati da compiti musicisti in frac. Poi è la volta di una musica più popolare, più accattivante, ad attirarci fino al margine di una pista da ballo, ove giovani coppie danzano il tango, finché irrompe sull’assito un terzetto di prosperose femmine emiliane, che si producono in una esilarante, ruspante lezione di Ars Amandi padana. Ed è ancora il suono lontano dei sax che ci invita a proseguire, mentre un’incredibile moltitudine di lucciole accende il sottobosco, fino a una rustica scalinata di legno che guarda il fiume, ove il gruppo prende posto, dopo aver dispiegato sulle assi bagnate le pezze di plastica che uno staff onnipresente ed efficientissimo ci ha consegnato all’inizio del tragitto. E qui si sviluppa uno dei momenti più magici dell’intero progetto: su una chiatta che scivola lentamente sull’acqua ritroviamo quella figura in cappotto scuro che occhieggiava nel bosco: in un lungo monologo, Toni Ligabue (qui Marco Cavalcoli) ci introduce nuovamente nel suo personale mondo di artista terragno, selvatico, dai sentimenti teneri e feroci, fedele alle sue difficili scelte di vita. E quando la sua voce tace, un faro illumina una slanciata figura vestita di azzurro, ritta presso l’acqua, come in un quadro preraffaellita: Danusha Waskiewicz, che canta accompagnandosi con la viola; mentre un silenzioso sandolo, spinto dal remo spaiato di un vogatore, trasporta Toni, ormai pacificato con sé e con il mondo. Si percorre l’ultimo tratto, affiancati da strani viandanti dalle cui bisacce si diffonde ancora la voce di Ligabue: testimonianze della sua sete di amore, della sua visionaria immagine del mondo.

Ho volutamente interrotto la cronaca dei tre itinerari che, con precisione cronometrica, si riuniscono a Gualieri, entrando da accessi diversi nella Piazza Bentivoglio, al suono delle bande comunali di Guastalla e di Boretto, e di tutti gli strumentisti impegnati nel progetto. Raggiunto il centro della piazza, il maestro Vanni Crociani, in marsina, guida con larghi gesti il composito, atipico corpo musicale. Risuonano prima i colpi delle grancasse e delle percussioni, quindi una marcia funebre che annuncia il funerale di Toni Ligabue. Accompagnano il feretro Lorenzo Ansaloni e Marco Cavalcoli, i due principali interpreti di Toni e, seduto sulla bara portata a braccia dagli internati e dal personale del manicomio, Mario Perrotta. È lui a dar voce al defunto, rovesciando una violenta, beffarda invettiva sulla folla accorsa in massa al suo funerale per un tardivo, ipocrita riconoscimento: si rivolge a coloro che hanno pagato un suo quadro qualche piatto di minestra, o che lo hanno bruciato nel camino; a chi ha fatto rottamare un camioncino da lui decorato con appassionata, geniale fantasia creativa; a chi rimpiange di non averlo blandito a suo tempo, per ottenerne opere oggi di valore. Rimessosi in marcia il corteo, rimane in mezzo alla piazza solo un contrabbasso, che fa risuonare le sue note più gravi e più penetranti, e dal balcone della torre campanaria si alza il canto di quattro voci femminili, fra le quali spicca il timbro doppiamente seducente della voce e della viola di Danusha.

Questo, a un dipresso, ciò che, per quattro giorni, dal 21 al 24 maggio, ha animato le piazze, le strade, i boschi, i viottoli sull’argine; oltre a una serie di piccoli, fascinosi appuntamenti, come la visita al Teatro Ruggeri, guidata da una tenerissima “Anima del teatro”; o la generosa, fantasiosa installazione/happening de L’antro della follia. Un progetto cui hanno assistito complessivamente 2500 spettatori paganti, che ha richiesto un anno e mezzo di preparazione, dai costi vivi assolutamente risibili, ma frutto di un immenso, non quantificabile lavoro degli artisti, dello staff, dei volontari. Un capitale umano che non può dissolversi, ma che, in forme da reinventare, deve avere altre occasioni di mostrare ciò che ha prodotto. Lo dobbiamo a quei futuri, per ora virtuali spettatori, ma anche come riconoscimento all’energia, alla creatività, all’intelligenza progettuale profuse con entusiasmo e generosità, specie da tanti giovani.

E lo dobbiamo anche allo scomodo fantasma di Toni Ligabue, che ancora aleggia in quei luoghi; alla memoria di quel pitùr geniale e scostante, dal profilo simile a un rostro d’aquila, che abbiamo imparato ad amare.

Claudio Facchinelli

Progetto Ligabue: arte, marginalità e follia.

Bassa Continua – Toni sul Po, ideazione e regia di Mario Perrotta; testi di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta; coreografie di Mario Coccetti; costui di Sabrina Beretta e Sabine Schuh; coordinamento musicale di Vanni Crociani e Gabriele Graziani; con Mario Perrotta, Lorenzo Ansaloni, Marco Cavalcoli, Danusha Waskiewicz, Paola Roscioli, Lara Puglia, Alessia Martegiani, Micaela Casalboni, Silvia Lamboglia, Alice Melloni, e innumerevoli altri giovani; Gli irregolari di Brescello, Scuola Progetto Danza di Michele Merola, Ars Ventuno di Guastalla; Corpo filarmonico “G.Bonafini” di Guastalla, Complesso bandistico “G. e F. Medesani” di Boretto, Meridian Sax Quartet, I Violini di Santa Vittoria, Tamburi del Crostolo, e innumerevoli altri giovani artisti di talento, che non è possibile citare.

Così come non ci è possibile citare gli oltre trenta soggetti, grandi e piccoli, pubblici e privati – con i quali ci scusiamo – che hanno contribuito alla produzione.

Per un elenco completo, consultare http://www.progettoligabue.it/

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